lunedì 19 aprile 2010

Centri sociali e lavoro autonomo

Intervista a Francesco Raparelli, a cura di Radio Kairòs – Bologna

D: Nei tuoi ultimi articoli hai scritto che i centri sociali possono rappresentare delle forme di lavoro autonomo. Perché e in che modo?

La riflessione parte da una sfida che poggia su due piani. Il primo è che i centri sociali possono diventare ‒ in alcuni casi già lo sono ‒ degli spazi di organizzazione delle nuove forme del lavoro. Il secondo elemento è che i centri sociali possono diventare ‒ e già in parte sono ‒ delle imprese sociali.

Prima questione: quando si parla di lavoro autonomo si parla di un lavoro che ha bisogno molto spesso di spazio, di servizi, di formazione e che ha bisogno di relazioni. Quello che ci stiamo chiedendo a Roma è se i nostri spazi sociali possano diventare propriamente questo: luoghi di servizio rispetto alle tematiche fiscali o giuridiche più generali; spazi per i servizi legati alla formazione, a quel meccanismo di formazione permanente e di definizione di nuove competenze decisivo sul mercato del lavoro autonomo e cognitivo, sul mercato insomma del nuovo lavoro terziario; spazi fisici dove poter costruire relazioni e, in alcuni casi, lavorare.

Pensiamo a tutta la vicenda della produzione culturale e del lavoro artistico. I nostri spazi sono da sempre spazi che ospitano produzione artistico-culturale alternativa, ma il nodo decisivo non è tanto e solo ospitare il prodotto finito, lo spettacolo, la mostra o l'evento musicale, ma capire se i nostri spazi possano diventare dei luoghi dove si attivano laboratori e percorsi di produzione, magari anche legati a processi di attraversamento del mercato, del mainstream, o anche di relazione forte con alcuni nessi istituzionali o alcuni canali di finanziamento pubblico.

Si tratta in primo luogo, quindi, di trasformare alcune cose che già ci sono in una sfida semmai più ampia e più articolata.

Seconda questione: il tema degli spazi autogestiti come imprese sociali, come imprese che producono servizi, socialità, cultura.

Questo secondo elemento è strettamente intrecciato al primo, ma riguarda anche e più da vicino quelle nuove esperienze di militanza biopolitica che abbiamo cominciato a fare in questi anni. Una militanza non più segnata dal tratto attivistico-testimoniale, diciamo così, ma segnata fino in fondo dalla definizione di competenze, di capacità e di professionalità.

Attivare una serie di servizi e di dinamiche produttive dentro gli spazi, costituire associazioni o cooperative, cominciare a mettere in rete queste cooperative, federare nella forma dei consorzi queste attività che vivono dentro i centri sociali, potrebbe essere un modo per rafforzare una sfida non solo politica ma anche più generalmente economica all'interno della crisi globale e dunque della crisi che tocca in sorte ai precari, ai giovani, a quelli in questa fase più colpiti dalla disoccupazione, dall'assenza di prospettive e di futuro.

Pensare i nostri luoghi non solo come incubatori di imprese di lavoro autonomo, di nuovi lavori e dunque anche luoghi di servizio di assistenza e di formazione, ma anche come luoghi all'interno dei quali vivono esperienze molto precise di impresa, di cooperazione.

Questo è un dibattito che i centri sociali hanno iniziato ad affrontare tanti anni fa. Se vi ricordate, nella metà degli anni novanta si sarebbe dovuto tenere a Livorno un convegno dal titolo Centri sociali: che impresa!, convegnoche non vi fu mai ma di cui esiste, comunque, una pubblicazione, abbastanza introvabile, per Castelvecchi Editore*, pubblicazione che andrebbe ripresa in mano per capire qual'era il dibattito, ormai 20 anni fa. In alcuni luoghi quel dibattito si è consolidato in esperimenti molto importanti: dal nord-est alla stessa città di Bologna, da esperimenti a Roma ad alcune cose anche nel nord-ovest.

Ma questo percorso però non ha mai più assunto il carattere di un percorso pubblico, di un percorso attorno al quale costruire narrazione, discorso politico. Come se, d'improvviso, il tema dell'impresa sociale fosse fosse diventato il tema dell'organizzazione inappariscente e quotidiana ma non il tema del discorso politico, del dibattito, della proposta politica e strategica. Dibattito che, piuttosto, potrebbe e dovrebbe assumere i termini della domanda “che cosa siamo diventati?”. E la risposta dovrebbe procedere, senza timidezze: “siamo imprese sociali federate, siamo spazi dell'autogestione che investono sulla tematica del lavoro autonomo e sulla centralità dei meccanismi di imprenditorialità diffusa”.

Questa sfida che DINAMO si è posta, che stiamo ponendo nella città di Roma e agli altri centri sociali, è una sfida che prova a ragionare su qualità, virtù, attitudini, attività, competenze ed esperimenti che si sono sviluppati in questi anni nei centri sociali e prova a capire come trasformare tutto questo in un discorso politico più generale.

D: Questi ragionamenti, che partono dai cambiamenti degli ultimi anni, soprattutto dai cambiamenti dell'attivismo politico, aprono dei ragionamenti anche sugli spazi di indipendenza sociale e sulla creazione di nuove identità. Quello che ci stai raccontando mette a valore queste esperienze reali che già sono in essere.

Si tratta di dar maggior forza alle esperienze reali che si sono date in questi anni proprio perché ci troviamo in una situazione in cui la crisi impone non solo un aggravamento della precarietà, ma anche una ripresa significativa della disoccupazione e della povertà. Si tratta di capire, come fu negli anni Settanta con la vicenda del lavoro autonomo (prendete questo paragone con estrema cautela), se oggi come allora la questione del lavoro autonomo sia anche una questione di exit, cioè di esodo costituente, di costituzione di indipendenza, di elaborazione di strategie alternative alle forme di ricatto imposte dalla precarietà o dalle nuove povertà, dalla disoccupazione, dall'assenza di prospettive e di futuro.

Dentro la crisi, dunque, dire impresa sociale, cooperazione, spazi autogestiti, significa dire: “qui si gioca una partita decisiva, i nostri spazi sono luoghi forti dentro la crisi perché all'interno di essi c'è cooperazione, c'è relazione, ci sono servizi, conoscenze, formazione”. Visto che queste cose sul mercato si pagano e in generale oggi si pagano di più perché sono decisive per sopravvivere in un mercato del lavoro sempre più spietato, noi dobbiamo tentare di rendere pubblico questo ragionamento: partendo da ciò che siamo, ma valorizzando fino in fondo gli esperimenti di autoimprenditoria, di impresa sociale, di cooperazione e anche di servizio e di formazione che sono terreni decisivi dentro la congiuntura singolare specifica che stiamo vivendo (la crisi, la disoccupazione, le nuove povertà). Sono terreni decisivi questi non solo per lo scontro politico, ma anche per definire una exit positiva dalla crisi. E' un discorso che va affrontato con molta delicatezza, con grande continuità e con senso del rischio, perché stiamo parlando di cose non facili e, appunto, molto delicate.

D: Va affrontato anche con voglia di mettersi in gioco sul terreno della sperimentazione.

Il problema, però, è definire una sorta di outing corale. Dire che noi siamo già queste cose, lo siamo in parte o lo stiamo diventando, che lo abbiamo imparato diversi anni fa o lo abbiamo imparato da pochissimo. Le esperienze dei centri sociali, infatti, sono, anche e per fortuna, stratificate dal punto di vista generazionale.

Questa dinamica di sperimentazione non va vissuta, però, come qualcosa che accade a lato della prassi politica e dei conflitto, perché il nostro modo di fare conflitto sul lavoro e sulla crisi significa anche (non solo chiaramente!) costruire imprese.

Quando diciamo istituzioni autonome e del comune diciamo, probabilmente, anche questo: quanta capacità produttiva ed economica riusciamo a sviluppare all'interno dei nostri luoghi? Quanta militanza riusciamo a far vivere dentro un rapporto stretto tra capacità di conflitto, competenze, conoscenze e processo produttivo, impresa, federazioni tra imprese? L'outing corale è utile anche per mettere quello che noi già siamo, che stiamo diventando e su cui abbiamo sperimentazioni, al centro della questione politica e dello scontro politico e sociale che viviamo intorno al lavoro e alla crisi.

Chiaramente su questo tema si aprono valanghe di problemi: qual'è il rapporto tra impresa sociale e mercato? Qual'è il rapporto tra impresa sociale e finanziamento pubblico? In che modo si definisce uno “statuto dell'attività” all'interno della cooperazione sociale dentro gli spazi? Molto spesso si lavora in condizioni salariali faticose e il termine salario è scorretto, bisognerebbe parlare fino in fondo di forme di reddito e di riappropriazione.

Questi temi, molto delicati e complessi, meritano un approfondimento vero, politico, non tecnico, che accade a lato della discussione politica più generale.


DINAMO
prova a mettere al centro del dibattito la questione dei centri sociali non solo perché oggi sono indubbiamente incubatori di lavoro autonomo e luoghi dove si attivano processi di impresa sociali, ma anche perché soltanto mettendo al centro della politica questi elementi virtuosi del nostro agire, del quotidiano “lavoro riproduttivo” degli spazi autogestiti, noi possiamo uscire dai limiti di minoritarismo e di debolezza riscontrati in questi ultimi anni dai centri sociali e rilanciare una sfida in grande che è una sfida di nuove alleanze, di ricomposizione sociale e politica, di nuova narrazione e di nuova utopia.

[* Primo Moroni, Daniele Farina, Pino Tripodi (a cura di), Centri sociali: che impresa! : oltre il ghetto: un dibattito cruciale, Castelvecchi, Roma 1995]

Liberati i 3 operatori di Emergency!


Sono stati rilasciati dopo 8 giorni di detenzione i 3 cooperanti di Emergency, l'infermiere Matteo Dell'Aira, il chirurgo Marco Garatti e il logista Matteo Pagani, arrestati sabato 10 aprile dalle autorità afghane a Lashkar-gah. Notizia che arriva dopo la grande iniziativa di ieri in piazza San Giovanni, dopo una settimana di mobilitazione e pressione espressa nell'univoca pretesa di liberazione immediata e nel diffuso prendere posizione al fianco del lavoro di Emergency. Si chiude il bluff degli arresti, vicenda nella quale il governo Berlusconi è stato messo in difficoltà e costretto a muoversi.


Domenica 18 aprile. Matteo Dell'Aira, Marco Garatti e Matteo Pagani Guazzugli Bonaiuti, fino a oggi detenuti in una struttura dei servizi di sicurezza afgani, sono stati liberati, non essendo stato possibile formulare alcuna accusa nei loro confronti.

Finalmente, dopo una settimana d'angoscia, e senza aver potuto beneficiare delle garanzie previste dalla costituzione e dalla legge afgane vigenti, potranno contattare le loro famiglie e i loro colleghi.

Ringraziamo tutti coloro che hanno lavorato insieme a Emergency per il rilascio, in Italia, in Afganistan e nel mondo.

Gli avvocati di Emergency continuano a seguire la situazione dei collaboratori afgani ancora trattenuti dai servizi di sicurezza, dei quali non abbiamo notizie né in merito alle loro condizioni di salute, né alla loro condizione giuridica, né al luogo presso il quale sono tuttora trattenuti.


Emergency: liberi perchè nessuna accusa nei loro confronti

Gli operatori di Emergency Matteo Dell'Aira, Marco Garatti e Matteo Pagani Guazzugli Bonaiuti, fino a oggi detenuti in una struttura dei servizi di sicurezza afghani, sono stati liberati, non essendo stato possibile formulare alcuna accusa nei loro confronti". È quanto si legge in un comunicato diffuso a Milano da Emergency, nel quale si ringrazia «tutti coloro che hanno lavorato insieme a Emergency per il rilascio, in Italia, in Afghanistan e nel mondo".

"Siamo molto, molto felici che i nostri tre operatori siano stati finalmente liberati e che abbiano potuto contattare le loro famiglie dopo otto giorni di angoscia": è il commento di Cecilia Strada, presidente di Emergency, pochi minuti dopo l'annuncio della liberazione a Kabul di Marco Garatti, Matteo Pagani e Matteo Dell'Aira. "Non avevamo dubbi sul fatto che tutto si sarebbe risolto bene - ha detto Cecilia Strada - perchè abbiamo sempre saputo che sono innocenti, così come lo sapevano le centinaia di migliaia di cittadini italiani che ci hanno sostenuto in questi giorni".

I tre operatori, ha detto, stanno bene e sono felici di essere liberi. In questo momento si trovano nell'Ambasciata italiana a Kabul. Una liberazione, quella dei tre operatori arrestati nove giorni fa, che secondo Emergency è stata possibile «grazie al lavoro di tutti coloro che si sono adoperati in questi giorni". Non sa ancora, Cecilia Strada, se e quando i tre operatori potranno tornare in Italia: "Ora è il momento della gioia, poi si ragionerà su cosa fare".


La cronologia dell'operazione contro Emergency

10 aprile - Con un blitz nell'ospedale di Emergency di Lashkar-gah nella provincia di Helmand, i servizi di sicurezza afghani (Nsd) arrestano i tre italiani, insieme ad altri sei cooperanti afghani, con l'accusa di preparare un attentato kamikaze contro il governatore della provincia, Gulab Manga. In una stanza della struttura ospedaliera vengono trovati giubbotti esplosivi, bombe a mano e armi. Il fondatore dell'Ong, Gino Strada, definisce «ridicole» le accuse e chiede al governo italiano di intervenire. In una nota la Farnesina ribadisce «la linea di assoluto rigore contro qualsiasi attività di sostegno diretto o indiretto al terrorismo» e allo stesso tempo riconferma «il più alto riconoscimento al personale civile e militare impegnato in Afghanistan per le attività di pace».

11 aprile - L'ambasciatore italiano a Kabul, Claudio Glaentzer, incontra i tre fermati in una struttura dei servizi di sicurezza afghani, trovandoli «in buone condizione». Il giornale britannico Times diffonde la notizia secondo cui i tre italiani avrebbero «confessato» il proprio ruolo nel complotto per uccidere il governatore, citando il suo portavoce, Daoud Ahmadi, mentre secondo la Cnn sarebbero accusati anche dell'uccisione dell'interprete di Daniele Mastrogiacomo, l'inviato di Repubblica sequestrato nel 2007. Gino Strada accusa il governo Karzai di aver «sequestrato» i tre italiani e parla di «una guerra preventiva per togliere di mezzo un testimone scomodo prima di dare il via ad un'offensiva militare in quelle regioni».

12 aprile - Per il ministro degli Esteri Franco Frattini parlare di sequestro è «una polemica politica che non aiuta i nostri connazionali». I tre, aggiunge, «non sono stati abbandonati» dal governo italiano. Frattini annuncia inoltre che inizialmente erano stati «trattenuti» anche altri cinque operatori dell'Ong, tra cui quattro italiane, poi lasciati andare. Nessuna accusa ufficiale viene ancora formulata nei confronti dei cooperanti di Emergency, mentre il portavoce del governatore di Helmand smentisce di aver parlato di confessione e che i tre avessero legami con al Qaida.

13 aprile - Frattini annuncia una lettera al presidente afghano Karzai per chiedere di accelerare le indagini, mentre la procura di Roma apre un fascicolo senza ipotesi di reato nè indagati.

14 aprile - In un'audizione al Parlamento, Frattini si dice «insoddisfatto» delle risposte finora avute dal governo afghano e spiega che in una lettera a Karzai il premier Silvio Berlusconi chiederà «risposte concrete». Il titolare della Farnesina annuncia anche che uno dei tre «potrebbe essere presto liberato».

15 aprile - Dell'Aira, Garatti e Pagani vengono trasferiti dall'Helmand a Kabul. Continua la polemica tra Gino Strada e la Farnesina. Emergency designa l'avvocato Afzal Nooristani, come difensore dei tre italiani, ma al legale non viene consentito di incontrarli.

16 aprile - L'ambasciatore Glaentzer, insieme all'inviato di Frattini in Afghanistan Massimo Iannucci, ottiene il permesso di incontrare, uno alla volta, i tre cooperanti italiani detenuti in una struttura dell'Nsd nei pressi di Kabul, trovandoli in buone condizioni di salute e di detenzione. Intanto Gino Strada non esclude un ruolo dei militari britannici nell'arresto dei tre operatori, ma un portavoce del Foreing Office precisa: le truppe britanniche sono entrate nell'ospedale di Emergency solo in un secondo momento, su richiesta delle forze afghane, per renderlo sicuro. L'ospedale viene chiuso e i pazienti più gravi trasferiti in quello governativo di Bost.

17 aprile - A Roma manifestazione di sostegno ai tre arrestati. In piazza San Giovanni sono 50mila i partecipanti secondo Emergency. Intanto a Kabul Iannucci incontra Karzai che assicura un'inchiesta «chiara e trasparente». L'inviato di Frattini annuncia in serata di aver trasmesso alle autorità afghane una proposta del ministro che possa portare a «una rapida soluzione» della vicenda.

18 aprile - Per tutto il giorno si rincorrono voci di un imminente rilascio dei tre. Intorno alle 16.00 la notizia della liberazione data dal ministro degli Esteri Franco Frattini.


Tratto da infoaut.org

martedì 13 aprile 2010

Perugia: arrestati tre attivisti del Csoa Ex Mattatoio

Lorenzo, Michela, Riccardo: Liberi subito!

Quella che stiamo per raccontare è una storia di ordinaria follia. Non sappiamo come definire altrimenti quello che è capitato ieri sera a Lorenzo, Michela e Riccardo, tre attivisti del Centro Sociale Ex Mattatoio.

I tre si trovavano nella centralissima Piazza IV Novembre e stavano bevendo una birra insieme ad altre persone, in attesa di mettersi in macchina per raggiungere Fabriano per assistere al concerto degli Assalti Frontali, in programma al CSA Fabbri. Tre loschi individui si sono avvicinati chiedendo loro di esibire i documenti senza mostrare nessun distintivo. Uno dei ragazzi ha chiesto quale fosse il motivo del riconoscimento ricevendo come risposta insulti e spintoni. Gli animi si sono surriscaldati e sul posto sono arrivate due volanti. Lorenzo, Michela e Riccardo sono stati malmenati, ammanettati e portati via sulle vetture che partivano a sirene spiegate verso la questura. Nel frattempo un altro ragazzo, che aveva ripreso l'accaduto con il videofonino, è stato aggredito da altri poliziotti in borghese.

Per tutta la notte nessun avvocato e nessun parente aveva ancora potuto incontrarli e accertarsi delle loro condizioni. L'unica notizia fornita è stata la convalida del fermo dei tre, con l'accusa di resistenza aggravata a pubblico ufficiale. Notizia che ha provocato sgomento e rabbia dei parenti e dei tanti amici/he e compagni/e che nel frattempo avevano raggiunto la questura.

Una storia che vede la violenza e la sopraffazione rasentare la follia pura, in cui i vigilanti hanno un potere di discrezionalità pressochè assoluta. Una storia ordinaria, simile a tante altre che quotidianamente avvengono nella nostra città e che hanno come vittime soggetti sfortunatamente invisibili. Un'ordinarietà figlia del biocontrollo che dilaga nelle nostre metropoli, nei nostri territori e nelle nostre vite. Un'ordinarietà che si innesta nel tessuto di una città dove si respira sempre più un clima "cileno" e dove sembrano avere agibilità solamente massoni, costruttori, faccendieri e narcotrafficanti. Decine di posti di blocco ogni sera sulle strade che delimitano il centro storico; poliziotti in borghese, vigilanti privati e pattuglie a presidiare le piazze e le vie principali. Perugia puzza di deserto. Un deserto che mira ad entrare nelle nostre esistenze per saccheggiarle e svuotarle.

Vogliamo la libertà immediata per Lorenzo, Michela e Riccardo, "sangue del nostro sangue".

Vogliamo una città altra, e la costruiremo con la forza delle nostre lotte e delle nostre passioni e con la potenza che la nostra indipendenza riesce a sprigionare, sempre e ovunque.

Domani mattina alle ore 10,30 si terrà, presso l'atrio del Comune, in Via dei Priori, una conferenza stampa pubblica, in cui verrà denunciata alla stampa ed alla città intera il gravissimo episodio accaduto.

Csoa Ex Mattatoio

CommonsLaB Perugia

Collettivo Femminista Sommosse Perugia

venerdì 9 aprile 2010

Intervista a Haitham al-Khatib, giornalista-videomaker del comitato popolare "friends of freedom and justice" di Bi'lin


Haitham al-Khatib è giornalista e vive a Bil’in, villaggio occupato della Cisgiordania. Al-Khatib filma i raid, così come le manifestazioni settimanali contro il Muro e per questo motivo è diventato una personalità ben conosciuta attraverso i suoi coraggiosi reportages.

Quella che segue è un'intervista che ha rilasciato qualche mese fa


Com’è la vostra vita quotidiana attualmente ?

Haitham al-Khatib : A causa dei raid, la notte non dormo e giro nel villaggio con dei militanti internazionali e degli amici per sorvegliare su ciò che fanno i soldati quando giungono nel villaggio mascherati, tra le 2 e le 4 del mattino e invaono le nostre abitazioni. I nostri figli sono terrorizzati. A 15 anni, sono stato io stesso imprigionato: avevo veramente paura e così oggi sento la responsabilità di fare un tentativo per mettere fine a ciò che accade e aiutare le future generazioni.

Tutti i venerdì filmo le manifestazioni nonviolente contro il Muro. Le forze di occupazione hanno rubato oltre la metà delle nostre terre per costruire le colonie e il Muro: così noi protestiamo. Quest’anno durante una manifestazione hanno ucciso un caro amico, Bassem Abu Rahme. Aveva le braccia alzate e diceva ai soldati di non sparare perchè un israeliano era stato ferito, ma lo hanno ucciso lo stesso. Dopo questo incidente ho capito quanto sono importanti le immagini per far conoscere la verità ; l’esercito ha dichiarato che Bassem è stato ucciso perchè lanciava pietre. Io stavo fotografando in quel momento; pensavo che Bassem fosse solo ferito, ma quando ho capito la situazione, lo choc mi ha fatto abbandonare il mio apparecchio fotografico.

JM : Qual è l’impatto dei raid notturni sulla vostra vita familiare ?

HK : Io ho perso il mio lavoro di elettricista da quando sono iniziate le incursioni notturne e dunque siamo in una situazione finanziaria molto difficile. Non solo da me, ma tutti gli abitanti del villaggio dormono vestiti perchè ognuno teme di essere il prossimo a essere buttato giù dal letto sotto la minaccia di un’arma automatica. Io non dormo più a casa, perchè, se vogliono me, preferisco che almeno i miei figli riposino.

Mio figlio più piccolo, Karme, ha due anni. Gli è stata diagnosticata una leucemia quando aveva otto mesi. Lo portavo tutti i giorni all’ospedale di Gerusalemme, ma ora incontro sempre più difficoltà nell’ottenere i permessi necessari dalle autorità israeliane. Così ci va mia moglie. L’autorità palestinese pagava le cure per Karme, ma non possiamo più contare sul suo sostegno: all’inizio dell’anno hanno cessato di pagare e ho dovuto trovare 20.000 NIS (circa 3800 €). La mia famiglia non può permettersi tali spese ospedaliere.

JM : Perchè filmate gli attacchi notturni ?

HK : Perchè ho l’impressione che sia mio dovere mostrare al mondo la realtà di ciò che accade qui. E perchè immagino che, se la mia telecamera non fosse lì, i soldati israeliani si comporterebbero in modo ancora più brutale e resterebbero più tempo nel villaggio. Noi andiamo in giro anche per tentare di bloccare gli arresti violenti dei nostri ragazzi, anche se sembra impossibile.

JM : Siete mai stato ferito mentre filmate ?

HK : Si, molte volte ! Durante una recente invasione, alcuni soldati hanno tentato di imprigionarmi, ma sono scappato e mi sono ferito a una gamba con un pezzo di metallo di una macchina. I soldati mi hanno lasciato quando hanno visto che ero steso per terra.
I soldati mi attaccano spesso e cercano di rompere la mia telecamera, come è successo durante l’ultimo raid.
Ma sono stato ferito anche molte volte durante le manifestazioni nonviolente contro il Muro. Una volta, mentre facevo delle foto, un soldato mi ha detto che se non la smettevo, mi sparava un colpo in testa. Io non ho creduto alle sue parole e ho continuato a fare ciò che stavo facendo. E lui mi ha sparato un proiettile di gomma-acciaio e mi ha fratturato il cranio. Mentre ero in terapia intensiva, pensavo a una sola cosa : « Perchè ? » Non stavo facendo niente di male, ma i soldati non volevano che il mondo intero vedesse la verità sulle loro azioni mentre vantavano la « democrazia » israeliana sui grandi mezzi di comunicazione.
Ma non si tratta solo di me: centinaia di persone e numerosi giornalisti sono stati feriti durante queste manifestazioni non violente.

JM : Progetti per il futuro ?

HK : Sogno di poter insegnare a filmare agli abitanti del mio villaggio, affinchè, quando i loro figli saranno arrestati o rapiti, le loro madri lo potranno mostrare al mondo intero.
La settimana prossima vado in Svizzera con Shai Pollak, un militante e regista israeliano, un amico, per presentare "Bil’in Habibti" (un film di Shai sulla campagna di resistenza nonviolenta nel nostro villaggio) al Festival della Biennale Libera dell’Immagine in Movimento, a Ginevra.
Spero che questo film servirà per dimostrare al mondo che il Muro non è lì per questioni di sicurezza, come vuol fare credere Israele, ma per rubare le nostre terre e costruire colonie illegalmente.

JM : Riuscite a vedere la fine dell’occupazione ?

HK : Credo che un giorno ci arriveremo, ma per ora bisognerà lottare ancora a lungo. Se tutta la Palestina seguirà il modello Bil’in, saremo liberi.

COSA ACCADE NELLE GALERE?


Incontro/dibattito con Giuliano Capecchi (Associazione “Liberarsi” - Firenze)


Il carcere come strumento di repressione e controllo sociale
L’escalation delle morti in carcere: capirne le ragioni
Il regime di carcere duro (41 bis); le sezioni come luogo di isolamento e tortura per i carcerati
La pena dell’ergastolo e la campagna “Mai dire mai” per la sua abolizione
Sabato 10 aprile 2010 - ore 16:30
presso il CSA Germinal Cimarelli
(via del lanificio, 19/a - traversa di viale Brin)

A seguire cena sociale


Organizzato da:

Associazione “Liberarsi” (Firenze)
Circolo Libertario Ternano “Carlotta Orientale”
CSA Germinal Cimarelli
Redazione di Alternativa«Mente

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