giovedì 11 novembre 2010

"Education cuts...?" 50mila studenti londinesi assaltano la Millbank Tower!


50 mila studenti infuriati contro i tagli. Brucia Londra. Nella capitale britannica storica mobilitazione in risposta al progetto di aumentare le rette e sottrarre 3 miliardi di sterline al sistema universitario Grande corteo e sit-in ai piedi del Big Ben. E in 200 devastano la sede dei Conservatori. Premier in difficoltà, criticato anche dagli alleati

Paolo Gerbaudo per Il Manifesto

Vetrine che cadono in frantumi, sotto i colpi di sassi, bastoni, e calci, con i cocci che finiscono sull'asfalto illuminati dal bagliore arancione dei fumogeni e dalle fiamme di un falò alimentato da cartelli e striscioni. Un ostacolo che si infrange sotto la pressione di una folla infuriata, che si fa largo tra poliziotti sguarniti e impauriti e invade l'entrata dell'edificio lanciando grida di gioia e improvvisando danze scalmanate tra poltrone e schermi a cristalli liquidi. Non siamo ai piedi dell'Acropoli, nell'Atene in stato di sommossa permanente, ma a Londra, sulle algide sponde del Tamigi, all'entrata del cupo grattacielo di Millbank, sede del Partito conservatore al governo da poco meno di un anno. È contro questo simbolo della politica di austerità, che migliaia di studenti britannici si sono scagliati ieri pomeriggio, al termine di una grande manifestazione contro i tagli all'università che ha visto la partecipazione di almeno 50 mila persone.

In conclusione di una giornata storica, e una mobilitazione con pochi precedenti in un paese in cui il movimento studentesco è stato tradizionalmente più debole di quello del continente, un gruppo di alcune migliaia di manifestanti ha circondato la sede dei Tory. In duecento sono riusciti ad occupare l'atrio, e una trentina si è inerpicata fino al tetto del palazzo da cui hanno calato striscioni contro il programma di tagli all'università. Solo dopo quattro ore reparti di agenti anti-sommossa sono riusciti a riprendere il controllo della situazione sgomberando l'edificio. In serata la polizia conterà una ventina di feriti tra manifestanti e agenti.

La manifestazione partita a mezzogiorno di fronte a Downing Street, era stata indetta dalla Ucu (University and College Union), il sindacato dei professori universitari, e dalla Nus (National Union of Students), il sindacato unitario degli studenti. Obiettivo: fermare il progetto di tagli da oltre 3 miliardi di sterline al sistema universitario britannico e il piano di aumento delle tasse per gli studenti per cui il governo di coalizione di Conservatori e Liberaldemocratici vuole innalzare il limite massimo a quota 9 mila sterline all'anno.

Nel corteo che passa davanti alle sedi del potere di Wesminster, tra pupazzi di avvoltoi giganti, e volti insanguinati stile Halloween, impazzano gli slogan contro i Tory «schifosi» e contro Clegg il leader dei liberaldemocratici bollato come «traditore». Sally una studentessa ventenne dell'università di Nottingham brandisce un cartello che reca una foto dell'attuale vice-primo ministro libdem quando alla vigilia delle elezioni firmò la promessa che si sarebbe opposto all'aumento delle tasse universitarie. «Aveva promesso di essere diverso. Si è dimostrato bugiardo come gli altri politici se non peggio». Sara, una studentessa al Camberwell College of Arts, è venuta alla manifestazione per protestare contro la decisione di tagliare completamente i fondi alla didattica per le materie umanistiche e sociali - «chi l'ha detto che il paese ha bisogno solo di ingegneri e scienziati?».

A fianco degli studenti molti professori, che rischiano di perdere il posto di lavoro, a causa del piano di riforma. Per Kirsten che sta finendo il dottorato in studi culturali al Goldsmiths College «a pagare più di tutti saranno i giovani ricercatori. Dopo la fatica del dottorato rischio di trovarmi senza lavoro. Stanno trasformando l'educazione universitaria in un grande McDonald».

Gli scontri con la polizia cominciano quando verso le due in duecento valicano il recinto del parlamento, e inscenano un sit-in ai piedi del Big Ben. La polizia che aveva preso sotto gamba la manifestazione, come ammesso in serata dal direttore di Scotland Yard Paul Stephenson, fa fatica a tenerli a bada. Poi verso le due e mezza circa diecimila persone riescono a raggiungere il grattacielo di Millbank dove si trova la sede dei Tory. Né il servizio d'ordine della manifestazione, né i pochi poliziotti messi a guardia dell'edificio riescono ad evitare l'occupazione da parte del blocco più militante del corteo, da cui in serata si dissocieranno gli organizzatori della protesta.

Il successo della manifestazione di ieri è una pessima notizia per Cameron che pure in Cina, dove si trova in visita ufficiale, ha dovuto rispondere a critiche contro il piano di riforma dell'università. I liberaldemocratici, la cui sede è stata presa di mira da alcuni manifestanti si trovano in grandissimo imbarazzo dopo il voltafaccia nei confronti degli studenti. Una ventina di parlamentari libdem hanno annunciato che voteranno contro il piano di riforma quando verrà discusso ai Commons a fine mese. E se il fronte del no dentro i libdem guadagnasse nuovi aderenti per la coalizione Lib-Con potrebbe essere una sconfitta pesantissima e forse l'inizio della fine.


Le fotogallery degli scontri, della ribellione studentesca:


Inghilterra: scoppia la rabbia degli studenti contro i tagli all'istruzione

50mila studenti sono scesi oggi in piazza per protestare a Londra control'aumento delle rette universitarie e sono riusciti ad occupare Millbank Tower, quartier generale dei conservatori e a salire sul tetto del grattacielo. La rabbia studentesca ha attraversato per ore il centro londinese e si segnalano numerosi scontri e momenti di conflitto. L'edificio che ospita i servizi segreti interni MI5, non lontano dal grattacielo assediato, è stato chiuso con spessi portoni di metallo e le porte sul retro sono piantonate dalla polizia. Una squadra di poliziotti in assetto antisommossa è arrivata fuori dalla Tate Britain, il museo d'arte sulle sponde del Tamigi, sempre nella zona. Nel frattempo, a Westminster centinaia di manifestanti hanno organizzato un sit in dinanzi alla camera dei Comuni.



lunedì 8 novembre 2010

VERSO UN MERCATO BRADO…


Per far nascere, sul nostro territorio, un luogo di libera cooperazione e autorganizzazione con l’obbiettivo di restituire centralità alla terra, dignità a chi la lavora e qualità a chi ne consuma i prodotti.
Per tutte le persone pronte a riconquistare la propria autonomia alimentare.

“IL CIBO NON E’ UNA MERCE, LA TERRA NON E’ UN SUPERMERCATO”

EN MARCHE VERS UN MARCHE’ SAUVAGE…
Pour lasser nâitre dans notre térritoire un milieu de libre coopération et autorganisation afin de restituer centralité à la terre, dignité pour les gens qui travaillent dans le pays et qualité pour tous ceux qui en consumment les produits.
Pour toutes les personnes qui ont envie de se réapproprier de leur autonomie alimentaire.

« LA NURRITUIRE N’EST PAS UNE MERCHANDISE, LA TERRE N’EST PAS UN SUPERMARCHÉ »

TOWARD A WILD MARKET...
To create, on our territory, a place of free cooperation and auoto-organization in order to give back centrality to the land, dignity to whom tills it and quality to whom consumes its products.
For all the people ready to retake its own alimentary autonomy.

“THE FOOD IS NOT A MERCHANDISE, THE LAND IS NOT A SUPERMARKET”

نحو السوق البري ...لكي نصنع في منطقتنا للتعاون الحر والتنظيم الذاتي, مع الهدف إلى إعادة المركزية إلى الأرض ,عزة النفس لمن يعمل وجودة لمن يستهلك المنتوج .
إلى جميع الأشخاص الجاهزين لإسترجاع الإستقلال الذاتي الغذائي.
" ألطعام ليس سلعة ,الأرض ليست متجر "

giovedì 4 novembre 2010

Elezioni Usa: popolazione frustrata nella superpotenza in declino


di Davide Grasso (New York City)

La mappa del risultato elettorale statunitense è impietosa per i democratici, soprattutto se si guarda alle elezioni per la camera (House) e per i governatori dei singoli stati (http://elections.nytimes.com/2010/results/house). La maggior parte dei candidati repubblicani vince in tutto il Midwest (Kansas, Nebraska, Nord e Sud Dakota, Illinois, Missouri), in molti distretti di stati dell'ovest come Colorado, Wyoming, Utah, Nevada, della west coast come la California e l'Oregon, nel sud (Texas, New Mexico, Arizona, Oklahoma, Georgia, Florida, Tennessee, Kentucky, Nord e Sud Carolina) e anche in molti distretti degli stati del nord-est, che di solito premiano i democratici (circa la metà dei rappresentanti dello stato di New York, la Pennsylvania, parte del New Hampshire e del New Jersey). Nelle elezioni per i governatori dei singoli stati i democratici si assicurano soltanto uno stato dell'ovest, il Colorado, confermano New York e il Vermont, e conquistano la California. Perdono però in vari stati dove erano al governo nello stesso Midwest (Kansas, Iowa, Wisconsin, Michigan, Ohio), nell'ovest (Wyoming) nell'est (Pennsylvania, Maine) e nel sud (New Mexico, Oklahoma, Tennessee, Florida). I repubblicani confermano i propri governatori anche in Arizona, Utah, Nevada, Idaho, Alaska, Texas, Nebraska, Sud Dakota, Alabama, Georgia e in vari altri stati.

Nella conferenza stampa di mercoledì, Barack Obama ha definito il risultato "umiliante". Ha ammesso che qualcosa non deve aver funzionato nel suo governo e ha teso la mano ai repubblicani, con i quali, ha detto, occorrerà collaborare nei prossimi due anni, anzitutto sui temi dell'istruzione e dell'energia. Le prime dichiarazioni dal campo repubblicano, galvanizzato dal voto, hanno invitato il presidente ad ascoltare la voce del popolo e a cambiare le sue politiche, anzitutto ripristinando la politica dei tagli delle imposte avviata da G.W. Bush. Hanno inoltre promesso ai propri elettori di lavorare per l'abrogazione della riforma sanitaria approvata appena alcuni mesi fa. I mezzi di comunicazione si sono concentrati molto sulla vittoria di due rappresentanti che fanno riferimento al movimento del Tea Party, Rand Paul nel Kentucky e Paolo Rubio in Florida. Due seggi al senato non sono molto, ma va detto che il Tea Party - movimento esteso su tutto il territorio nazionale, dalle idee estremamente conservatrici, accusato di razzismo e non privo di alcuni tratti fascistoidi - è nato soltanto nel 2009, ed è fortemente avversato dall'establishment repubblicano (contro cui rivolge gran parte delle sue accuse, pur essendovi interno), anche se è vezzeggiato dalla sua nascita dalla maggior parte dei media statunitensi.


La grande delusione

Le elezioni di midterm difficilmente premiano il partito del presidente: in esse trova espressione lo scontento della popolazione per i progressi sperati che di norma, come in ogni post-democrazia che si rispetti, non si vedono. I democratici non soltanto avevano vinto alle presidenziali del 2008, ma anche nel midterm del 2006, negli anni dell'era Bush. Allora gran parte dell'elettorato, anche repubblicano, aveva optato per i democratici e per il "Change". Il risultato, soprattutto nel 2008 quando Obama vinse su McCain con 7 punti di vantaggio, fu tuttavia ambiguo. Visto dal resto del mondo, apparve come un'insperata inversione di rotta dalle politiche di guerra e repressione instaurate da Bush e dalla sua banda dal 2001, e il possibile prevalere nelle nuove generazioni di un'idea "liberal" della politica (ovvero, nel peculiare linguaggio politico statunitense, non troppo bigotta e meno intollerante). L'ambiguità del risultato risiedeva nel fatto che quel voto era intessuto di una trama socio-culturale e politica estremamente complessa, e almeno due tendenze (in realtà molte di più) l'avevano reso possibile. Da un lato, l'appello al Change e alla Hope, come si è detto, cambiamento e speranza: ciò che toccò la sensibilità dei giovani, degli studenti, degli afroamericani, dei migranti. Dall'altro la definitiva mossa vincente: l'appello (implicitamente rivolto all'elettorato "normale": bianco, maturo, sposato, "che lavora duro", di sani principi ecc.; in una parola, potenzialmente più conservatore) a concepire le elezioni 2008 come un referendum sulla politica repubblicana degli anni 2000. Qui stava il perno della netta vittoria del 2008, qui un aspetto innegabile della sconfitta del 2010. (Un'analisi separata meriterà la delusione dell'altra parte di elettorato, quella "non normale" e più appassionata a un'idea di cambiamento).


La Great Recession e il malessere profondo

Occorre tenere presente che la popolazione statunitense - tanto la middle class quanto la working class (molto meno l'alta borghesia) - è stata scioccata e terrorizzata dalla grande crisi che ha colpito il sistema immobiliare, del credito, della finanza e dell'economia in genere dagli ultimi anni dell'era Bush. Già da qualche anno l'impettito americano medio aveva dovuto rassegnarsi a vedere i turisti europei trarre vantaggio dalla forza dell'inedita perdita di primato del dollaro, e dover magari rinunciare, per lo stesso motivo, a una vacanza a Venezia. Improvvisamente la situazione economica, già non brillante, è apparsa pericolosa e senza sbocchi, se non lanciata a tutta velocità verso il crollo totale: i media e gli esperti usarono e usano ancora, un giorno sì e l'altro pure, giustificati toni da apocalisse e da grande depressione. Nessuno può dire la verità, cioè che gli Stati Uniti devono il loro benessere ad un'economia drogata dalle speculazioni della finanza, dalle concessioni fittizie del credito bancario (mutui per le case alla benedetta "middle class" in particolare) e dall'uso per definizione contingente della loro potenza militare, con la forza internazionale del dollaro e le disponibilità energetiche che, in ultima analisi, ne derivano quasi in toto. Nessuno ha potuto e può negare, a nessun livello, però, che qualcosa non sta funzionando al cuore del sistema USA. Qualcuno, dice l'uomo della strada al suo vicino di sgabello nel saloon bar, deve aver truccato le carte e fatto il gioco sporco, producendo come effetto un calo dell'occupazione e del benessere per la "ordinary people". E i primi sospettati per chiunque sono stati i grandi banchieri, e gli squali di Wall Street nella maledetta Big Apple.

L'immobilismo dei repubblicani li ha resi allora estremamente sospetti, tanto più che la loro base da tempo disapprovava la loro vicinanza ai poteri forti e la conseguente lontananza dalla gente comune (è ciò che contesta anche il Tea Party, con cui si identifica ad oggi almeno il 65% dell'elettorato repubblicano). Lo slogan obamiano "Rebuilding Our Economy" identificò quella che per molti elettori era l'unica alternativa possibile, e molti diedero più importanza a questo elemento che al resto, per esempio all'altro slogan ("Healthcare For All"), che non convinceva e non convince buona parte dei suoi elettori del 2008, diffidenti per ideologia verso ogni piano pubblico di aiuto ai più bisognosi. Le speranze che il Change portasse via la crisi sono sparite molto presto. I cospicui investimenti pubblici nell'economia non hanno fermato la degenerazione del sistema (Obama si limita a dire che l'hanno frenata, evitando il peggio a breve termine). Il paese intero continua a patire stagnazione economica e disoccupazione, che colpiscono ovviamente chi ha di meno, mentre la forza politica del presidente in seno alle istituzioni politiche non è stata sufficiente a permettergli di (o lui non ha avuto la lungimiranza per) limitare gli abusi dei magnati del credito e della finanza. Poco importa quale sia il partito e chi sia il presidente; l'economia va male, la soluzione è inadeguata. Occorre cambiare.


Il Change obamiano non supera la prova

Cambiare però non servirà a nulla, poiché le cause della crisi sono nel sistema dell'accumulazione capitalistica come tale, e nell'organizzazione economica, creditizia e militare del sistema statunitense in particolare. Se il voto del 2008 fu in gran parte un voto d'opposizione a Bush sul piano economico, quello del 2010 è, senz'altro, un voto di protesta contro Obama sul medesimo piano. Gli statunitensi continueranno ad astenersi per rabbia o a votare candidati che non ispirano fiducia, a protestare nell'animo e a subire la propria frustrazione all'infinito, finché non interverrà qualcosa di nuovo e di totalmente altro a cambiare le cose, e non è detto che sarà divertente. (In ogni caso si tratterà di qualcosa che dal punto di vista politico, almeno all'interno degli Stati Uniti, al momento non esiste). Questo non significa che il fenomeno Obama sia riducibile a una scelta anti-repubblicana vecchia di due anni e già priva di mordente politico o semantico. "Change" e "Hope" hanno significato e significano ben altro, e molto di più, e ben al di là delle volontà, intenzioni o capacità politiche del presidente e del suo entourage, o di ciò che il sistema lobbistico e istituzionale USA permette a chi viene eletto cavalcando i sogni di chi soffre. E questo non perché si tratti di concetti tanto idealmente affascinanti quanto vuoti, ma perché si tratta di concetti che parlano il linguaggio di soggetti sociali vivi e reali.

Detto questo, va oggi registrato il dato di fatto che gli slogan e il romanticismo, anche quando d’appeal per una parte consistente e importante della popolazione, in buona parte individuata secondo una linea di classe, non fanno un baffo alla matematica economica del declino. Con buona pace di chi si ostina a difendere, per partito preso o per scarsità di fantasia, certi precoci innamoramenti naif – da questa o da quell’altra parte dell’oceano.

____________

Notes from the States (di Davide Grasso)
Altri commenti:

Irlanda in crisi: scontri a Dublino tra studenti e polizia


L'annuncio del ministro delle finanze irlandese, Brian Lenihan, di nuovi tagli alla spesa pubblica e di altri aumenti delle tasse sta generando tensioni nel corpo sociale d'Irlanda.

I primi a mobilitarsi contro la crisi ed i provvedimenti governativi sono stati gli studenti universitari: il centro di Dublino come terreno di scontro tra dimostranti e polizia. Decine di migliaia di studenti hanno manifestato, nel particolare, contro il previsto ulteriore aumento delle tasse universitarie da 1500 a 2500 euro all'anno. Centinaia di studenti sono poi andati ad occupare il ministero delle finanze, fino a quando la polizia in anti-sommossa li ha poi sgomberati. Diversi studenti sono rimasti feriti, altri arrestati. Ancora oggi, dopo gli scontri di ieri, le strade della capitale sono presidiate dai poliziotti a cavallo e dai mezzi corazzati.

Dopo la battaglia in strada di ieri, il ministro Lenihan, oggi, nel suo intervento pubblico, non confermerà l'aumento delle tasse universitarie o altri dettagli dei tagli e delle nuove imposte, ma si limiterà a quantificare la manovra per limitare ulteriori proteste. Si prevede che la correzione sarà tra i 4,5 e i 7 miliardi di euro, è stata annunciata unj mese prima dal governo irlandese per tentare di calmare i mercati che continuano i dubitare sulla tenuta economica irlandese...

Ai timori sull'economia e sul settore bancario si sono aggiunte anche le preoccupazioni sulla stabilità del governo in seguito alle dimissioni di un parlamentare di Fianna Fail, il partito al potere, che ha ridotto la già esigua maggioranza dell'esecutivo e potrebbe rendere ulteriormente difficile l'approvazione della finanziaria il 7 dicembre.

martedì 2 novembre 2010

Brescia: 5 migranti ancora sulla gru. La lotta per la sanatoria continua!

Aggiornamenti da Radio Onda d'Urto sulla straordinaria prova di resistenza dei migranti saliti sulla gru sabato sera, dopo gli scontri con la polizia cittadina che ha cercato di impedire un corteo di massa per la dignità e i diritti.

01 Nov. Ore: 12.37 - BRESCIA: LA LOTTA DEI MIGRANTI CONTINUA

Terzo giorno di protesta per i cinque migranti che, da sabato scorso, si trovano sulla gru del cantiere del metrobus di Brescia posto all'incrocio fra piazzale Cesare Battisti e via San Faustino. Le condizioni meteo rimangono pessime, ma i cinque non sembrano voler desistere e continuano, da 30 metri d'altezza, a chiedere giustizia e diritti, dopo aver subito l'ennesima truffa con la sanatoria 2009. La forza pubblica intanto prosegue nella sua opera di provocazione ed ostruzionismo, tentando addirittura di impedire il rifornimento di cibo e bavande per il quintetto, come racconta nel contributo allegato Gabriele Bernardi, dell'associazione Diritti per tutti, raggiunto telefonicamente proprio al presidio solidale allestito sotto la gru.

31 Ott. Ore: 18.17 - BRESCIA: PIOGGIA,FREDDO E VENTO NON PIEGANO LA PROTESTA DI MIGRANTI E ANTIRAZZISTI

La pioggia battente, il freddo e il forte vento non piegano la lotta dei migranti saliti ieri su una gru a 25 metri di altezza in un cantiere della metropolitana in centro citta' a Brescia. Sono ancora in 8 a 25 metri di altezza, anche se due di questi segnalano malanni dovuti alla difficile situazione che stanno affrontando. Probabilmente scenderanno a breve. Gli altri 6 invece affermano di essere sempre più determinati nella lotta e ribadiscono le richieste fatte già ieri perchè finisca la protesta: incontro al Ministero dell'interno e riapertura delle domande ingiustamente rigettate dai tribunali italiani nei confronti dei migranti che hanno fatto la richiesta di sanatoria nel 2009, autorizzazione all'attuazione di un presidio di lotta dopo lo sgombero vigliacco di ieri in via Lupi di Toscana e un incontro anche con il prefetto di Brescia, fino ad ora negato. Vi proponiamo la corrispondenza con Umberto della redazione dal presidio spontaneo e permanente nei pressi del cantiere e l'intervista realizzata con l'avvocato Sergio Pezzucchi dell'associazione "Diritti per tutti". L'invito rimane quello di raggiungere il cantiere per sostenere la lotta e portare solidarieta' ai ragazzi sulla gru.

31 Ott. Ore: 12.20 - BRESCIA: LA LOTTA DI IMMIGRATI E ANTIRAZZISTI PROSEGUE E RILANCIA, MOBILITAZIONE PERMANENTE!

La lotta dei migranti e degli antirazzisti di Brescia prosegue e rilancia: dopo una notte molto difficile, per il forte vento eàla àpioggia, trascorsa dai migranti sulla gru dell cantiere della metropolitana di Piazza Cesare Battisti a Brescia, questa mattina la Brescia antirazzista è tornata di nuovo numerosa sotto la gru per portare solidarietà ai migranti. Nel quartiere interculturale del Carmine, teatro ieri dello scontro con i carabinieri, e partita una gara di solidarieta: i gestori di alcuni ristoranti e kebabberieàhanno dato laàdisponibilita a rifornire di piatti e generi alimentari i loro fratelli sulla gru, mentre molti altri residenti hanno portato tele cerate, piumini, giubbotti e indumenti di lana per il freddo. E stata anche creata una cassa di resistenza: ài contributi possono essere portati a Radio onda durto oppure consegnati direttamente al gruppo di appoggio logistico ai fratelli della gru. Lassemblea del presidioàper i permessi di soggiorno e delle realtaàantirazziste àieri sera ha deciso poi di proseguire con una mobilitazione permanente: oggi e domani presenza di massa sotto la gru, con assemblee alle ore 18; martedi 2 novembre presenza di massa al Palagiustizia di Brescia in mattinata (seguiranno informazioni sullorario)àquando sara processato per direttissima il compagno arrestato e rilasciato dopo le pressioni dei manifestanti ieri pomeriggio; nei giorni successivi cortei di quartiere e sabato 6 novembre grande manifestazione per i diritti, per la sanatoria, contro la violenza di stato, contro gli sfratti e tutte le leggi razziste: concentramento alle ore 15 in Piazza della Loggia. Non lasciamo soli i fratelli sulla gru!!! Vi proponiamo una trasmissione nella quale ci siamo messi in collegamento con Arun, uno dei migranti sulla gru di Piazza Cesare Battisti. Abbiamo poi intervistato Umberto dell'associazione Diritti per tutti, Mohammed, portavoce della comunità egiziana di Brescia, Giorgio Cremaschi, Presidente del comitato centrale della Fiom (presente questa mattina sotto la gru), Sauro, il compagno e nostro collaboratore arrestato e poi rilasciato ieri, Luigino e Elisa, due delle vittime delle cariche dei carabinieri di ieri, e Beppe Corioni, compagno del comitato contro gli sfratti di Brescia e provincia.
_________

La polizia ci spia su Facebook? Tanto stupore per nulla

Stupirsi del fatto che la polizia usi Facebook per spiare la attività degli utenti in rete, è un po’ come stupirsi del fatto che all’ombra dei palazzi romani e delle emittenti televisive milanesi, gli esponenti del potere si dilettino a fare “bunga bunga” con giovani donzelle più o meno compiacenti. Solo i giornalisti del gruppo editoriale “L’Espresso” possono pensare che una notizia di questo genere abbia rilevanza o presenti davvero il benché minimo carattere di novità.

Minchia commissà! Ci stanno spiando su Feisbuc!

L’articolo firmato da Giorgio Florian (“La polizia ci spia su Facebook”) che tanto clamore ha destato negli ultimi due giorni, a nostro modo di vedere, è attraversata da una linea narrativa di una banalità disarmante, in cui la storiella dell’orso viene venduta come la rivelazione dell’anno.

Provando anche a dare una lettura della smentita a tempo record della polizia postale, fatta a mezzo ANSA alle ore 16.30 di giovedì, vediamo quali possono essere i piani su cui la questione va affrontata.

Il primo è quello più ovvio che, dal basso della nostra esperienza militante, abbiamo già abbondantemente sedimentato nel bagaglio delle conoscenze quotidiane e sperimentato sulla nostra pelle. L’abuso degli strumenti digitali nelle indagini di polizia è qualcosa che nasce con il cellulare, ma che ha probabilmente origini molto più antiche ed analogiche. È semplicemente ovvio che la polizia nella sua opera costante di sorveglianza sui soggetti “devianti” abbia la possibilità di fare (e faccia effettivamente) largo uso di intercettazioni (telefoniche, ambientali ed informatiche) non autorizzate in alcun modo dalla magistratura. Chiedetelo a qualsiasi avvocato un pò scafato e ve lo confermerà senza troppe remore. Se fate caso alle parole di Antonio Apruzzese, direttore centrale della polizia postale, noterete che il fatto in se non viene assolutamente negato. Semplicemente si attesta che i cybercop – bontà loro – si muovono «sempre con l’autorizzazione della magistratura. Anche perché nel caso contrario tutto ciò che si fa non avrebbe alcun valore processuale». Il che però non significa che intercettazioni prive di valore probatorio in un’aula di tribunale (ovvero non utilizzabili nella formazione della prova) non possano essere fruttuosamente impiegate in attività di “prevenzione” e repressione.

Il secondo aspetto da trattare invece, riguarda l’ipotesi che vengano messe in atto tattiche di social engeneering (ovvero “infiltrazioni” all’interno dei gruppi “virtuali” basati sulla dissimulazioni di un’identità) su Facebook ed altri social network. Una “breaking news” vecchia come il protocollo TCP/IP.

Per rendersene conto basta partecipare ad un qualsiasi evento (pubblico e pubblicizzato) che IISFA (International Information Systems Forensics Association) organizza più o meno ogni anno in collaborazione con l’Università di Bologna. IISFA è un’associazione no-profit che si occupa di informatica forense ovvero di indagini contro crimini informatici e non, volte al recupero di informazioni dalla rete e dai computer dei soggetti indagati.
A questi raduni pubblici di cybersbirri non vengono svelati particolari segreti (come è ovvio che sia), ma partecipano scoppiettanti showman di fama consolidata (come il buon Matteo Flora) che, per guadagnarsi il loro tozzo di pane quotidiano, imbastiscono una sorta di performance in cui si illustrano rudimenti di data mining e principi di ricostruzione delle reti di relazioni personali dei soggetti attenzionati tramite l’ausilio di Facebook e di altri social network. Solitamente non è che emergano chissà quali rivelazioni eccezionali: semplicemente risulta chiaro, una volta di più, come Facebook sia fortemente sconsigliato per effettuare comunicazioni sensibili (né i profili privati, gli strumenti di chat o le caselle di posta del social network di Palo Alto sono ovviamente d’aiuto in questo senso). Detta in altri termini buona parte delle indagini poliziesche viene facilitata, e resa possibile nella stragrande maggioranza dei casi, sia dalla massificazione dello strumento, sia dal cattivo uso che i singoli ne fanno.

Bisogna però fare questa considerazione alla luce del fatto che Facebook è una struttura societaria in cui vengono investiti centinaia di milioni di dollari da aziende che si occupano principalmente di profilazione e advertising on-line. Questo perché l’architettura del codice di Facebook viene pensata e costruita in un’ottica tutta orientata all’estrapolazione massiva di dati dal profilo dell’individuo. Ecco dunque spiegato perché, come afferma Florian nel suo articolo, «gli sceriffi italiani cavalcano sulle praterie dei bit». Basta una breve lettura di David Lyon per capirlo, senza scatenare tutto ‘sto can-can.

Il terzo piano riguarda invece il fatto che Facebook possa aver siglato segretamente un accordo di cooperazione con la polizia italiana per rendere più rapida la succitata opera di sorveglianza. È ovvio che un accordo di questo tipo, qualora fosse portato alla luce, sarebbe una gatta da pelare non di poco conto per un’azienda che proprio sulla questione della privacy viene attaccata in maniera continuativa da diverso tempo. Ed è altrettanto ovvio che si tratterebbe di un accordo palesemente in violazione con le leggi vigenti in Italia. Secondo Alessandro Gilioli «stiamo parlando di una vera e propria perquisizione, espletata con la violenza del più forte». D’accordo, ma attenzione: non sarebbe nient’altro che la formalizzazione di una situazione posta in essere già da tempo, ben prima della nascita di Facebook stesso.

Siamo infatti dell’idea che il vespaio sollevato dall’articolo dell’Espresso non vada affrontato tanto “in punta di diritto” (quando mai in Italia lo stato di diritto ha rappresentato una soglia di non ritorno oltre il quale le forze di polizia non hanno osato spingersi nelle indagini?), ma possa piuttosto essere un’occasione di riflessione sulle condizioni materiali sviluppatesi negli ultimi vent’anni in seno al capitalismo informazionale.

È un contesto all’interno del quale dei soggetti privati (come i motori di ricerca, social network o provider telefonici) hanno accumulato un enorme mole di informazioni sui singoli, tale da permettere loro di esercitare un potere anche dai connotati marcatamente pubblici, sopratutto nel campo della comunicazione (nel nostro caso Facebook detiene l’accesso ad un archivio di informazioni personali talmente sterminato da far impallidire la STASI). Questo però non significa che tali soggetti non siano costretti ad una costante ri-contrattazione del loro ruolo con i poteri politici dei paesi in cui svolgono le loro attività commerciali, tanto più nell’era della “lotta al terrorismo globale”, dove il concetto di privacy è stato soffocato dalla simbiosi tra l’affermazione delle necessità economiche delle grandi corporation hi-tech e la cessione di fette di riservatezza ai governi in cambio di “sicurezza”. La trasparenza sociale degli individui è stata capovolta ed il suo baricentro sospinto in maniera asimmetrica e sbilanciata dalla parte del potere, anche grazie all’opera incessante di legittimazione della openness da parte delle ideologie di rete neo-liberiste. Gli “effetti collaterali” sono ad ampio spettro e vanno dalla collaborazione gomito a gomito tra polizia giudiziaria ed i grossi aggregatori dell’informazione fino alla messa in cantiere di progetti alla minority report resi possibili dal contributo di Google.

In questo panorama allora, cosa ci sarebbe allora di tanto eccezionale nel fatto che Facebook predisponga “una corsia preferenziale” d’accesso per gli investigatori italiani, quando il crackdown di Autistici di 5 anni fa aveva già messo abbondantemente in luce forme di complicità e connivenza tra operatori del mondo delle telecomunicazioni e forze di polizia? (Per chi se lo fosse dimenticato, all’epoca con la scusa di mettere sotto controllo una singola casella di posta la polizia, con il tacito assenso di aruba, il provider su cui allora erano situati i server di AI, aveva messo sotto sorveglianza migliaia di account elettronici riconducibili al movimento antagonista italiano tutto).

A voler essere provocatori rispetto al tono dei commenti delle ultime ore, ci sembra una questione di lana caprina il fatto che tali pratiche vengano ratificate o meno in maniera ufficiale, mentre è ben più rilevante che le condizioni materiali e politiche su cui essi poggiano e che rendono possibile una sorveglianza estesa sono già del tutto dispiegate.

Ridicola invece è la posizione dei lerci leccapiedi di Google in Italia (Punto Informatico), pronti a stracciarsi le vesti di fronte agli schermi translucidi dei loro iMac da 24 pollici all’idea che « certe violazioni della legge sulla riservatezza verrebbero così praticate con disinvoltura».

Parbleu! Qualcuno pensi alle donne ed ai bambini!

Era forse legale la chiusura delle centinaia di gruppi Facebook effettuate l’anno scorso sotto la pressione politica del Viminale e dei media di casa nostra? Erano forse state autorizzate da un qualche magistrato? Si trattava di sequestri preventivi regolarmente previsti dal codice penale? Ovviamente no, né pare consolante il fatto che allora si parlava di censura e oggi di sorveglianza.

Controesempio: perché si discute di cancellare il decreto Pisanu (un provvedimento che non ha avuto eguali negli altri paesi europei nemmeno negli anni più bui della guerra infinita, quanto forse nella ex-DDR, approvato anche dal centrosinistra) da un giorno all’altro? Ora come nel 2005, le nostre identità sulle reti wireless non sono “minacciate da malintenzionati pronti ad impersonarci”?
Ma veniamo a sapere che i soldi per la banda larga (libertà di navigazione) non ci sono, così una soluzione alternativa si dovrà pur trovare…e la sicurezza?
Non si tratta tanto di sottolineare l’incoerenza della volontà politica di una parte quanto di evidenziare, ancora una volta, l’assoluta sindacabilità ed effimerità della cosiddetta “legge” (e della buzzword della “legalità” che la incensa e la erige a totem monolitico) davanti alla costante ridefinizione dei rapporti di forza degli attori politici.

E non prendiamoci in giro. Che le forze dell’ordine italiane mettano in atto pratiche illegali in termini di sorveglianza è una banalità storica che tracima l’era digitale, le cui origini soggiacciono in una cultura poliziesca che trova la sua prima espressione nelle schedature politiche fatte dai Carabinieri su larghe fette della popolazione a partire dal secondo dopo guerra.

Certo che la crisi deve picchiare duro anche dalle parti dell’Espresso, perché per scrivere bagatelle di questo tipo e montarci sopra pure una bella polemichetta, vuol dire che ti pagano tre euro e cinquanta al pezzo e proprio non riesci ad arrivare a fine mese.

Quindi, scusate, ma è solo tanto stupore per nulla.


Tratto da infoaut.org

visitatori