giovedì 31 marzo 2011

Draquila, l'Italia che trema [Cineforum.FuoriDagliSchermi]


Draquila - L'Italia che trema è un documentario realizzato nel 2010 da Sabina Guzzanti. È stato proiettato in anteprima esclusiva la sera del 5 maggio in Piazza Duomo all'Aquila, a 13 mesi esatti dal sisma. Il 6 maggio 2010 nel talk show AnnoZero vengono mostrate in anteprima immagini tratte dalle scene tagliate del film. È stato presentato fuori concorso al Festival di Cannes il 13 maggio[1].

Il titolo è stato scelto tra le dive...rse proposte presentate dai lettori del blog dell'artista[2].

Partendo dalla catastrofe del terremoto dell'Aquila del 2009, il documentario indaga la politica dell'emergenza e del grande evento gestita dalla Protezione Civile, dipinta come un "parastato" in grado di operare al di sopra della legge. Nel film, la comica Sabina Guzzanti, che torna al giornalismo d'inchiesta dopo il precedente Viva Zapatero!, non risparmia critiche all'operato del governo italiano, in particolar modo di Silvio Berlusconi e Guido Bertolaso, denunciando anche l'invisibilità e l'inefficienza dell'opposizione.

giovedì 24 marzo 2011

Comunicato costitutivo del Comitato Cittadino Contro la Guerra Terni


Contro l'ennesima guerra per il petrolio scatenata dalle potenze occidentali e dalla nato si è costituito a Terni il comitato cittadino contro la guerra.

La riunione cittadina di lunedì 21 marzo, ha visto la numerosa presenza di realtà politiche, associative e sindacali e una buona discussione iniziale che ha prodotto un primo calendario di iniziative contro l’attacco militare sulla Libia, condotto dalle potenze imperialiste sotto il falso ombrello ONU di una missione di protezione civile, in aperta violazione, ancora una volta, di ogni norma di legalità e civiltà internazionale.

I fermenti e le contraddizioni delle società nordafricane sono guardate con molto interesse dai paesi imperialisti, preoccupati della perdita delle proprie posizioni di potere e determinati a camminare sulle teste dei popoli arabi per contendersi le risorse naturali e le quote di mercato ad esse collegate; così si spiega ad esempio l'interesse della Francia a capeggiare la guerra per essere la prima a spartirsi il bottino e di ridefinire il quadro complessivo dell'approvvigionamento energetico dell'Europa. Non a caso l'Italia, finora beneficiaria dei favori di Gheddafi, chiede che il controllo passi alla NATO; non a caso la Russia, grande fornitrice di petrolio e gas naturale, è contraria ad un intervento che rischia di produrre una riduzione del prezzo di tali risorse; non a caso la Germania, che dipende grandemente dalla Russia in fatto di energia, si è astenuta dall'intervenire in un conflitto dove non ha nulla da guadagnare.

Altro che missione di pace! Ci troviamo ancora una volta di fronte alla menzogna della “guerra umanitaria”, che costituisce il vero ostacolo all’autodeterminazione del popolo libico, un processo complesso che come tale può avvenire solo al di fuori di ogni ingerenza di altri stati nazionali e dei poteri economici che li muovono.

L´intervento militare delle potenze della NATO nel conflitto, a sostegno di una fazione (quella di Bengasi) contro l´altra fazione (quella di Gheddafi), conferma l'esigenza di una via d'uscita alla “falsa alternativa” fra Gheddafi e ribelli, una via d'uscita basata sull'internazionalismo, sulla solidarietà tra le classi sfruttate e sulla lotta per l'emancipazione globale dal giogo imperialista.

La Libia ha già conosciuto le efferatezze e le rapine del colonialismo di Italia, Francia e USA, che non sono certo cessate sotto Gheddafi, da anni ottimo interlocutore dell’imperialismo europeo, e anzi anche associato ad esso con i suoi investimenti.

In Italia il governo Berlusconi concede le basi sul nostro suolo e partecipa all’intervento militare diretto, aspirando a proporsi, pur con qualche improvvisazione, come avamposto imperialista nel Mediterraneo e come piattaforma per le dinamiche imperialistiche più complessive. E tutto questo con la vergognosa sollecitazione del Presidente della Repubblica, di tutta l’opposizione

Fermiamo questo nuovo bagno di sangue e questo ennesimo tradimento della Costituzione!

Venerdì ci attiveremo per far conoscere attraverso un volantinaggio nel centro cittadino le ragioni che sono dietro all’attacco militare sulla Libia, nell'intento di mobilitare tutte le forze popolari qui come altrove per determinare la cessazione dei bombardamenti, l'apertura di negoziati sotto la garanzia di paesi terzi, come quelli dell'America latina, già fautori di una proposta di mediazione, e per sostenere il diritto dei popoli arabi all'emancipazione ed all'autodeterminazione.

Prossimo appuntamento del "Mercato Brado"


DOMENICA 27 MARZO DALLE 12
NEL GIARDINO DEL CSA GERMINAL CIMARELLI, VIA DEL LANIFICIO 19A_TERNI

I PRODUTTORI DI MERCATOBRADO NON SONO CERTIFICATI BIOLOGICI, SONO AUTOCERTIFICATI GENUINI, UNA PRATICA CONSOLIDATA DI GARANZIA PER IL PRODUTTORE ED IL CONSUMATORE.

Gaza sotto attacco terroristico israeliano. E intanto crescono le proteste in Baharain, Siria e Yemen

israhellApprofittando della nuova guerra colonale e imperialista dell'Occidente contro la Libia, Israele continua imperterrito la propria operazione di pulizia dei palestinesi, sempre "di troppo". Alcuni aggiornamenti dal Facebook di Vittorio Arrigoni

Ore 16.10 - E' un massacro. Un nuovo massacro made in Israel. Il carro armato israeliano ha puntato e colpito: 5 civili uccisi, 10 feriti. 2 bambini ammazzati. Stavano giocando a calcio. I loro nomi sono: Muhammad Jihad Al-Hilu, 11 Yasser Ahed Al-Hilu, 16 Muham...mad Saber Harara, 20 Yasser Hamer Al-Hilu, 50 e un quinto cadavere non ancora riconosciuto.

Ore 15:15 - Boati come di esplosioni sopra tutta Gaza city dovuti a caccia F16 che rompono il muro del suono a volo radente sugli edifici. Si definiscono sonic booms, si traducono in una parola sola: terrorismo.

Ore 11:15 - Un drone (UCAV) ha appena bombardato a Est di Al Nazzan street, Est di Shuajaiyeh. Colpiti alcuni guerriglieri della resistenza.

Ore 9:45 - Invasione di 3 carri armati a est di Gaza city. Hanno appena bombardato. Un ferito.

Ore 9:00 - Terrorismo israeliano. 18 civili colpiti solo questa notte. 7 bambini, 2 donne. A quando bombardamenti NATO su Tel Aviv? Netanyahu è più figo di Gheddafi?

***

Siria, Yemen, Egitto Bahrain. La primavera che si fa largo

siria_scontro_poliziaMentre le bombe euroamericane continuano a piovere in Libia. Altrove, nel resto dei paesi arabi i movimenti continuano la loro lotta innescata già da settimane se non da mesi, o addirittura riescono a trovare la forza in un momento difficile a muovere i primi passi, proprio come in Siria.

Un venerdì della collera che nella scorsa settimana ha acceso numerose piazze del grande paese arabo della protesta contro il regime e la crisi. A Damasco le iniziative del movimento sono state segnate dalla richiesta di liberazione delle decine e decine di prigionieri politici o provenienti dal mondo dell’associazionismo e dell’informazione. Ma per raggiungere la piazza più incisiva e determinata dobbiamo andare a sud e lasciare la capitale.

Daraa una città importante di una regione che vive soprattutto di agricoltura dove forse il mix tra un proletariato giovanile altamente scolarizzato, disoccupazione e repressione potrebbe divenire una miscela sociale davvero esplosiva che fa subito tornare alla mente di molti commentatori le prime giornate di protesta tunisine nella regione del Regueb. Usciti da scuola venerdì, una quindicina di ragazzini di Daraa sono stati notati dalle forze di sicurezza mentre tracciavano sui muri scritte anti-regime, soprattutto l’ormai famoso slogan trans-arabo “il popolo vuole la caduta del regime”, tratti in arresto, la rabbia dei manifestanti già pronti a scendere in piazza, si è scatenata per la giornata di iniziativa del movimento. Decine di migliaia in strada, scontri, lacrimogeni e poi proiettili (che lasciano a terra 5 manifestanti), è iniziata così la prima prova tecnica di movimento in Siria. “No alle leggi d’emergenza. Siamo un popolo innamorato della libertà” questo lo slogan che il movimento gridava domenica tentando di raggiungere gli edifici del governo regionale subito dopo i funerali dei manifestanti uccisi. Ma ancora una volta lacrimogeni e spari. Muore un altro giovane manifestante. Il regime ha annunciato l’apertura di inchieste sui fatti accaduti, ma non ha mostrato nessun segno di apertura alle rivendicazioni della piazza che introducono la piattaforma di lotta con la richiesta della fine immediata delle leggi d’emergenza in vigore in Siria dal 1963.

[Alcune fonti parlano che proprio in questi minuti (13h ore italiane) una grande manifestazione sta attraversando la città di Daraa. I manifestanti urlano “rivoluzione, rivoluzione”, e l’esercito sembra che stia prendendo posizione intorno alla città.]

La piazza yemenita si trova in queste ore in un momento cruciale. Un movimento variegato e ricco di sfumature tra opposizioni politiche e composizione sociale che vede al centro gli studenti e le studentesse universitari come volano e punto di forza. Una delle primissime piazze a salutare le insurrezioni tunisine ingaggiando un conflitto durissimo contro il regime. Tenaci e coraggiosi con un piano di radicali riforme politiche e indispensabili nuove forme di distribuzione della ricchezza si stanno scontrando con le forze di polizie e le milizie filo governative.

Nei giorni scorsi l’escalation di violenza del regime: si contano più di 50 morti per arma da fuoco tra i manifestanti, e il regime inizia a tremare per un terremoto sociale che aumenta invece di rifluire. In queste ore veniamo a conoscenza che uno dei principali ufficiali dell’esercito yemenita, Ali Mohsen Al-Ahmar si è schierato insieme alle sue truppe dalla parte del movimento e diversi militari di tutte le gerarchie stanno intervenendo, in segno di partecipazione e solidarietà, dal palco del sit-in permanente in prossimità del campus universitario di Sanaa, mentre altri carri armati, plotoni e tank hanno preso posizione intorno al palazzo della presidenza in segno di difesa del regime. A margine dei funerali dei tanti manifestanti uccisi anche le più alte autorità religiose hanno annunciato la propria volontà di accogliere le istanze del movimento esortando le forze della repressione a cessare con le violenze. Diversi ambasciatori dello stato yemenita stanno rassegnando dimissioni, così come il governatore della città di Aden (la seconda del paese). Sembra l’effetto a catena che succede allo scioglimento del governo ordinato ieri notte dal presidente Ali Abdullah Saleh.

In Egitto siamo alla resa dei conti tra il movimento da una parte e gli islamisti, l’esercito e il partito PND (il partito di Mubarak) alleati nella campagna referendaria per il “si”. Vincono questi ultimi su l’affluenza alle urne del 40%. A perdere invece sono i Giovani della Rivoluzione del 25 gennaio, l’Associazione Nazionale per il cambiamento di Al-Baradei, il partito Ghad, i comunisti di Tagammu, i liberali Wafad, il partito nasserista, e il partito del Fronte Democratico che avevano lanciato la campagna per il “no”, ovvero nessuno spazio per riformare l’attuale costituzione ma avviare immediatamente i lavori per allestire una costituente capace di dare ragione della rivoluzione del 25 gennaio.

Con la vittoria dei “si” passano in blocco alcuni emendamenti alla costituzione, che sembrano agli occhi di molti solo delle riforme formali quanto parziali, e comincia la campagna elettorale per le prossime elezioni. Sia i fratelli musulmani e il loro nuovo partito Libertà e Giustizia che l’NPD il partito di Mubarak si trovano ora in netto vantaggio nella campagna elettorale forti i primi dell’organizzazione ormai secolare in Egitto (che si traduce con potenza economica e influenza politico-culturale e sociale) e i secondi che godono ancora del sistema lobbistico ancora in piedi dopo la cacciata del vecchio rais.

Le altre organizzazioni politiche e le espressioni d’opposizione della società civile non dispongono degli stessi mezzi degli avversari ed alcuni neanche della volontà politica di concorrere in un sistema partitico che denunciano già come espressione della contro rivoluzione in atto. Nelle settimana precedenti d’altronde l’esercito aveva attuato un ripiego ultra repressivo contro le organizzazioni sociali più avanzate nella lotta e aveva represso e criminalizzato duramente tutti gli eventi di conflitto che alludevano alla volontà popolare di voler andare fino in fondo nell’ottenimento degli obiettivi della piazza rivoluzionaria. Aperture politiche formali (come lo scioglimento della polizia politica) si erano succedute ad arresti indiscriminati, processi da corte marziale contro attivisti e manifestanti che durante i sit in di protesta sono stati attaccati dalle manganellate elettriche della celere e dell’esercito. Ieri pomeriggio sfidando il copri fuoco e lo stato d’emergenza in migliaia hanno raggiunto comunque piazza Al-Tahrir gridando “Aizin dostur gadid”, (vogliamo una costituzione nuova) e poi no alla contro-rivoluzione, segno che il movimento egiziano tiene posizione e ha chiaro ormai il panorama delle alleanze e delle controparti dello scenario politico post-Mubarak.

In Bahrain il re Hamad bin Isa Al-Khalifa dopo la repressione del fine settimana, forte delle armate degli altri paesi del golfo, parla di un piano eversivo orchestrato dall’estero (Iran) per destabilizzare il paese. Molti leaders del movimento sono stati arrestati e dopo aver sgomberato la piazza dove erano stato allestito l’accampamento dei manifestanti, aver butatto giu e demolita la statua della perla “ritenuto elemento perturbatore dell’ordine pubblico”, la corona bahrenita tenta di utilizzare la supposto ingerenza iraniana per dividere il movimento, che però fin dai primi cortei e sollevazioni di piazza ha rifiutato nettamente la divisione tra sciiti e sunniti, reclamando insieme, giustizia sociale e riforme politiche.

tratto da www.infoaut.org

23 marzo 2011

Scontri a Palermo al presidio antifascista al Multicenter Mondadori

cordoneOltre trecento manifestanti si sono radunati nei pressi del Multicenter Mondadori meno di mezz'ora fa, cori e fumogeni davanti l'ingresso dello store, ed immediatamente è partita la carica delle forze dell'ordine, nonostante le cariche ed i lacrimogeni, i manifestanti sono riusciti a ricompattarsi ed avanzare nuovamente verso l'ingresso della libreria.

Gli antifascisti e le antifasciste palermitane che si sono radunati in presidio davanti la libreria Mondadori Multicenter che ha messo a disposizioni i suoi locali, nella centralissima via Ruggero Settimo, all'organizzazione di estrema destra Casa Pound per la presentazione del libro "Nessun Dolore". La stessa cosa aveva fatto anche lo scorso mese, giorno 11 febbraio, ma era stata costretta ad annullare l'iniziativa grazie alla presenza di un presidio che per ore ha bloccato la strada antistante la libreria stessa. Come scritto in una nota nella campagna di boicottaggio che ha preceduto questa giornata il lupo perde il pelo ma non il vizio, infatti il multi center ha, per la giornata odierna, proposto nuovamente la presentazione dello stesso libro, ancora una volta non il nuovo che avanza ma il vecchio che ritenta, i militanti di Casa Pound, forse per rifarsi della magra figura di aver dovuto annullare l'iniziativa in extremis hanno voluto ritentare l'impresa. È chiaro che questa iniziativa vuole essere una vetrina per l'organizzazione di estrema destra, un modo per conquistare spazi di visibilità nel cuore della città, ma gli antifascisti palermitani non demordono e continuano a combattere il fascismo giorno per giorno e presidiando anche oggi la libreria.

Seguiremo in diretta gli aggiornamenti dalla piazza.

ore 17:00

Pochi minuti fa la polizia ha ricominciato a caricare, questa volta con le camionette, vera e propria guerriglia urbana a Palermo. Gli antifascisti non si arrendono, continuano ad avanzare verso via Ruggero Settimo per riposizionarsi di fronte la libreria Mondadori. Fitte ed intense sassaiole costringono la polizia a ripiegare.

ore 17:15

Le forze dell'ordine continuano a caricare con le camionette per allontare gli antifascist* dalla Mondadori, i manifestanti non arretrano, dopo le cariche riconquistano spazi di avanzamento. Solidarietà dai negozianti della zona che, dopo il lancio di lacrimoggeni, hanno distribuito ai manifestanti acqua e limoni.

ore 17:30

I manifestanti, dopo quasi un'ora di scontri con le forze dell'ordine, si stanno muovendo in corteo, effettuando blocchi stradali nel centro della città.

I fascisti, a Palermo, hanno avuto la possibilità di scendere in piazza solo dietro cordoni di polizia posti a loro difesa, hanno visto con i loro occhi quanto Palermo è antifascista e quanto dura può essere la sua risposta ai loro tentativi di cercare agibilità in città.

Antifascisti sempre!

domenica 20 marzo 2011

[Cineforum-FuoridagliSchermi] Cacciatori di Nazi + Skinhead attitude


Per terminare il tema sottocultura Skinhead, il CSA Germinal Cimarelli vi propone con la rassegna Fuori dagli Schermi due documentari sul tema.
Skinhead attitude: è un documentario che entra nello specifico del perchè e per come nasce e si evolve la cultura skin.
Cacciatori di Nazi, invece, è un breve documentario sui "Red Worriors" Parigini, che difronte al diffondersi a macchia d'olio dell'estremismo di destra, con annessi pestaggi ed atti xenofobi, nella capitale francese, decidono di combattere in prima persona, ma sopratutto fisicamente,il fenomento Nazista...
Con questo appuntamento terminiamo il tema sottoculture, per poi passare all'Italia: dal fenomeno Protezione Civile denunciato nel film di Sabina Guzzanti, Draquila, alla piaga sociale quale è il precariato dei giovani denunciato dal film "Tutta la vita davanti".

Intanto, vi invitiamo a non mancare alla prossima proiezione in programma per giovedì 24 Marzo ore 21.30 al CSA Germinal Cimarelli.









sabato 19 marzo 2011

La Libia e il ritorno dell’Imperialismo Umanitario

usa_mondoÈ tornata la banda al completo: i partiti della Sinistra Europea (i partiti comunisti "moderati"), i "Verdi" di José Bové, ora alleati di Daniel Cohn-Bendit, che ancora non ha trovato da ridire su nessuna guerra degliUSA-NATO, vari gruppi troskisti e, naturalmente, Bernard-Henri Lévy e Bernard Kouchner, tutti a chiedere una specie di "intervento umanitario" in Libia o ad accusare la sinistra latinoamericana, le cui posizioni sono più sensibili, di agire come "utili idioti" del "tiranno libico".

Dodici anni dopo, è tutto esattamente uguale al Kosovo. Centinaia di migliaia di iracheni morti, la NATO in una posizione difficilissima in Afghanistan, e non hanno imparato nulla! La guerra del Kossovo è stata fatta per fermare un genocidio inesistente, la guerra dell’Afghanistan per proteggere le donne (andateci e verificate la loro situazione ora), e la guerra dell’Iraq per proteggere i kurdi. Quando capirete che a tutte le guerre si attribuiscono giustificazioni umanitarie? Pefino Hitler "proteggeva le minoranze" in Cecoslovacchia e Polonia.

Da parte sua Robert Gates avverte che qualsiasi segretario di Stato che consigli al presidente USA di mandare truppe in Asia o Africa "deve farsi degli esami alla testa". Anche l’Ammiraglio McMullen consiglia prudenza. Il grande paradosso dei nostri tempi è che i quartieri generali della pace siano al Pentagono e al Dipartimento di Stato, mentre il partito pro-guerra è una coalizione di neoconservatori e liberal interventisti, compresi guerrieri di sinistra umanitari, così come ecologisti, femministe o comunisti pentiti.

Quindi ora dobbiamo consumare meno per il riscaldamento globale del pianeta, ma le guerre della NATO sono riciclabili e l’imperialismo è diventato uno sviluppo sostenibile.

Naturalmente gli USA andranno o meno alla guerra per ragioni totalmente indipendenti dai consigli offerti dalla sinistra pro-guerra. Il petrolio non sarà probabilmente un fattore decisivo perché qualsiasi nuovo governo libico dovrà vendere petrolio e la Libia non ha l’influenza necessaria per avere un peso importante nel prezzo del petrolio. Chiaro che l’instabilità della Libia genera speculazione che di per sé influisce sui prezzi, ma è un’altro dscorso. I sionisti hanno probabilmente due idee conflittuali sulla Libia: odiano Gheddafi e glipiacerebbe abbatterlo, come Saddam, nelmodo più umiliante, ma non sono sicuri che gli piacerebbe l’opposizione (e per quel poco che sappiamo non gli piacerà).

Il principale argomento pro-guerra è che se le cose si faranno in modo rapido e facile si rivaluteranno la NATO e l’intervento umanitario, la cui immagine è macchiata dall’Iraq e dall’Afghanistan. Una nuova Grenada o, almeno, un nuovo Kossovo, è esattamente quello di cui si ha bisogno. Un’altra motivazione per un intervento è il miglior modo di controllare i ribelli, andandoli a "salvare" nella loro marcia per la vittoria. Ma è improbabile che funzioni: Karzai in Afghanistan, i nazionalisti kossovari, gli sciiti in Iraq e naturalmente Israele sono molto felici di ricevere l’aiuto statunitense, quando ne hanno bisogno, ma poi continuano con i loro propri piani. Inoltre, un’occupazione militare completa della Libia dopo la sua "liberazione" sarà difficile da mantenere, cosa che naturalmente fa sì che l’intervento sia meno attrattivo dal punto di vista USA

Per converso, se le cose andassero male sarebbe probabilmente il principio della fine dell’impero statunitense, da qui la prudenza dei funzionari in carica, la cui occupazione non è soltanto quella di scrivere articoli per Le Monde o parlare contro dittatori davanti alle telecamere.

È difficile per un cittadino normale sapere cosa sta succedendo esattamente in Libia, perché i media occidentali sono completamente screditati con la copertura degli avvenimenti in Iraq, Afghanistan, Libano e Palestina, e le fonti alternative non sono sempre affidabili. Questo naturalmente non ha preoccupato la sinistra pro-guerra che è assolutamente convinta che i peggiori reportage su Gheddafi siano veri, come dodici anni fa su Milosevic.

Il ruolo negativo della Corte Penale Internazionale si è mostrato di nuovo, qui, com’è successo con il Tribunale Penale Internazionale per la Jugoslavia, nel caso del Kosovo. Una delle ragioni per cui c’è stato uno spargimento di sangue relativamente limitato in Tunisia ed Egitto era che c’erano via d’uscita possibili per Ben Alí e Mubarak. Ma la "giustizia internazionale" vuole assicurarsi che non ci sia via d’uscita possibile per Gheddafi, né probabilmente per la gente a lui vicina, e con questo li incitano a lottare fino alla fine.

Se "un altro mondo è possibile", come ripete la Sinistra Europea, poi un altro Occidente dovrebbe essere possibile e la Sinistra Europea dovrebbe cominciare a lavorare al suo interno. Le recenti riunioni dell’Alleanza Bolivariana possono servire come esempio: Le sinistre in America Latina vogliono la pace e si oppongono all’intervento USA perché sanno che anche loro sono nel mirino degli USA e che i loro processi di trasformazione sociale richiedono soprattutto la pace e la sovranità nazionale. Per questo consigliano di inviare una delegazione internazionale, possibilmente guidata da Jimmy Carter (che nessuno può chiamare marionetta di Gheddafi), per cominciare un processo di negoziazioni tra il governo e i ribelli. La Spagna ha manifestato interesse per questa idea, ma naturalmente Sarkozy l’ha respinta. Questa proposta può apparire utopica ma non lo sarebbe tanto se fosse sostenuta dalle Nazioni Unite, che in questo modo rispetterebbe la sua missione –ma questo è impossibile a causa dell’influenza degli USA e dell’Occidente. Comunque non è così impossibile che ora, o in qualche crisi futura, una coalizione non-interventista di nazioni, comprese la Russia, la Cina, Paesi dell’America Latina e forse altri, uniscano i loro sforzi per costruire alternative affidabili di fronte all’interventismo occidentale.

A differenza della sinistra latinoamericana, la patetica versione europea ha perso ogni senso di ciò che significa fare politica. Non cerca di proporre soluzioni concrete ai problemi, ed è capace soltanto di prendere posizioni morali, in particolare la denuncia di dittatori e le violazioni dei diritti umani in tono magniloquente. La sinistra sociale democratica segue la destra con alcuni anni di ritardo e non ha idee proprie. La sinistra "radicale" si ingegna a denunciare i governi occidentali in tutti i modi possibili e allo stesso tempo chiede che questi governi intervengano in giro per il mondo per difendere la democrazia. La sua mancanza di riflessione politica la rende altamente vulnerabile alle campagne di disinformazione e a diventare tifosa passiva delle guerre degli USA-NATO.

Questa sinistra non ha un programma coerente e non saprebbe che fare nel caso che un dio la mettesse al potere. Invece di "appoggiare" Chávez e la Rivoluzione Bolivariana, un richiamo senza significato che alcuni adorano ripetere, dovrebbero apprendere umilmente da loro, e prima di tutto reimparare il significato di fare politica.

Jean Bricmont

CounterPunch

Fonte ww.rebelion.org

traduzione Andrea Grillo

martedì 15 marzo 2011

Nucleare: Ragione e affari

Tra tutti gli sviluppisti i nuclearisti italiani sono indubbiamente i più sprovveduti. Negano l’evidenza. All’articolo di Mario Tozzi, (il Fatto Quotidiano) che illustra le ragioni del no al nucleare, facciamo seguire un graffiante ritratto di un neo-nuclearista, di Alessandro Robecchi (Il Manifesto), 13 marzo 2011

Il Fatto Quotidiano
Nucleare, Mario Tozzi: “La politica farebbe meglio a stare zitta”
di Lorenzo Galeazzi e FedericoMello

centrale_nucleare_enel“Sono degli irresponsabili. Parlassero di meno e studiassero di più”. Mario Tozzi, maître à penser e mezzobusto televisivo dell’ambientalismo italiano, non usa mezzi termini nel commentare le reazioni di casa nostra al terremoto giapponese e alla minaccia di disastro nucleare. Le dichiarazioni dei vari Fabrizio Cicchitto e Pierferdinando Casini, a Tozzi non sono proprio piaciute. E’ un fiume in piena: “C’è da rimanere allibiti. Questi politici fanno finta di esser dei teorici di fisica nucleare. Non hanno nemmeno la decenza di usare la cautela che in situazioni come questa dovrebbe essere d’obbligo”.

Non parlate a Tozzi poi dell’editoriale di oggi del Messaggero a firma di Oscar Giannino. Un articolo che ha scalato la classifica delle dichiarazioni al buio che poi sono state clamorosamente smentite. Il giornalista scriveva che quanto accaduto in Giappone era “la prova del nove” della sicurezza dell’energia prodotta dall’atomo. “Che figura miserrima quella di Giannino – attacca Tozzi – Ma a una cosa è servita: a smascherare l’abitudine italiana di salire in cattedra e di parlare di cose che non si conoscono”.

Di fronte alla minaccia di un disastro nucleare, la parola d’ordine della lobby nucleare nostrana è minimizzare. “Anche l’incubo che sta vivendo il Giappone in queste ore con il danneggiamento di un reattore – continua il giornalista – in Italia viene declinato a mero strumento di propaganda politica e ideologica. Difendono l’atomo solo perché non possono tornare indietro”.

Secondo il conduttore di “Gaia, il pianeta che vive” (che tornerà in onda su Rai Tre a partire dal 31 marzo) le bugie più macroscopiche della lobby pro-atomo sono due: la sicurezza e l’economicità di questa fonte di energia. Che la tragedia giapponese le sta drammaticamente mettendo a nudo.

“Le centrali nucleari giapponesi – spiega Tozzi – sono state costruite per sopportare un terremoto di 8,5 gradi della scala Richter. Poi cos’è successo? E’ arrivato un sisma di 8,9 e le strutture non hanno retto”. Le centrali italiane saranno costruite per resistere a delle scosse di circa 7,1 gradi, ma, come sostiene Tozzi, “chi ci assicura che un giorno non arriverà un sisma più potente?”. Nessuno, appunto. Perché i terremoti sono fenomeni che non si possono prevedere. Inoltre il disastro giapponese è avvenuto nel paese tecnologicamente più avanzato del mondo. A Tokio infatti è radicata una seria cultura del rischio che è frutto di una profonda conoscenza di questi fenomeni. “Con quale faccia di tolla i vari Cicchitto ci vengono a vendere l’idea che in Italia, in caso di terremoto, le cose possano andare meglio che in Giappone? Il terremoto dell’Aquila se si fosse verificato in Giappone non avrebbe provocato neanche la caduta di un cornicione. Da noi ha causato 300 morti. Chi può credere alle farneticazioni sulla sicurezza del nucleare italiano?”, chiede sarcasticamente Tozzi. E’ vero che l’incidente nucleare è più raro, ma è altrettanto vero che è mille volte più pericoloso. E il caso giapponese, secondo Tozzi, è da manuale: “Se a una centrale gli si rompe il sistema di raffreddamento diventa esattamente come un’enorme bomba atomica. Forse è questa la prova del nove di cui parla Giannino”.

E poi c’è la questione della presunta economicità dell’energia prodotta dall’atomo. “I vari politici e presunti esperti – argomenta Tozzi – si riempono la bocca dicendo che il kilowattora prodotto dall’atomo è più economico di quello prodotto dalle altre fonti. Ma non è vero. Noi sapremo quanto costa realmente solo quando avremo reso inattivo il primo chilogrammo di scorie radioattive prodotto dalle centrali. E cioè fra 30mila anni”. Secondo il giornalista, la lobby che vuole il ritorno del nucleare propaganda la sua convenienza economica senza tenere conto dell’esternalità, e cioè dei costi aggiuntivi che ne fanno lievitare il prezzo. Che vanno dallo smaltimento delle scorie (problema che nessun paese al mondo ha ancora risolto definitivamente) ai costi sociali ed economici di un eventuale incidente. “Sono soldi che i nuclearisti non conteggiano – dice Tozzi – perché sono costi che ricadranno sui cittadini e sulle generazioni future”.

Il 12 giugno è in programma un referendum che, fra le altre cose, chiede l’abrogazione del ritorno all’atomo dell’Italia. Il rimando a quanto successe a Chernobyl nel 1987, alle grandi mobilitazioni antinucleariste fino al referendum che sancì l’abbandono dell’energia nucleare è quasi d’obbligo. Ma a Mario Tozzi il paragone non convince: “Veniamo da 25 anni di addormentamento delle coscienze. Oggi abbiamo gente come Chicco Testa e Umberto Veronesi che fanno i finti esperti e spot ingannevoli che traviano l’opinione pubblica”. Insomma, il legame fra l’incidente che scosse le coscienze e il voto popolare che funzionò nel 1987, oggi potrebbe fallire. Ma il 12 giugno non si voterà solo per dire no all’atomo. I cittadini saranno chiamati anche ad esprimersi contro la privatizzazione delle risorse idriche e contro la legge sul legittimo impedimento. Temi che, affianco al no all’atomo, potrebbero convincere i cittadini ad andare alle urne. E consentire alla tornata referendaria di raggiungere il quorum.


il manifesto
L'incredibile Kikko
di Alessandro Robecchi

Credere a quello che dice Kikko Testa era, fino a ieri, una missione disperata. Da oggi è una missione impossibile. Venerdì sera, mentre il reattore nucleare di Fukushima preoccupava il mondo, Kikko era in tivù a dire: tutto sotto controllo. Ieri mattina, mentre le agenzie giapponesi parlavano di un'esplosione nella centrale nucleare, con distruzione della gabbia protettiva del reattore e rilevazioni di cesio radioattivo, sul sito del Forum nucleare (presidente Kikko Testa) il titolo era questo: «La centrale di Fukushima è sotto controllo», corretto da un timido aggiornamento solo a metà giornata.
Fortuna che Kikko è giovane e giovanile. Fosse più anziano avrebbe potuto tranquillizzare le popolazioni del Vajont (state sereni, due gocce d'acqua). Ma a quest'uomo così ottimista, uno che sul Titanic avrebbe chiesto all'orchestra di continuare a suonare e ordinato a gran voce altro champagne, dobbiamo dei ringraziamenti. Grazie a Kikko sappiamo esattamente cosa succederebbe qui se avessimo le centrali nucleari. Non sapremmo niente.
In un paese in cui un semplice sacchetto della monnezza pare un problema insormontabile, le scorie nucleari sarebbero presentate come caramelle inoffensive (cosa peraltro già fatta nello spot ingannevole del Forum nucleare, sospeso dal giurì per manifesta paraculaggine).
In caso di incidente, Kikko ci direbbe che va tutto bene, tutto è ok, sotto controllo, senza rischi, beviamoci sopra e non pensiamoci più. Con una semplice apparizione in tivù, Kikko ci ha spiegato perfettamente come la menzogna sui rischi sia connaturata agli interessi dell'industria nucleare, come un buon affare valga più della vita e della salute della gente anche per più generazioni. A quest'uomo elegante e pacato dovremmo dire grazie per la volonterosa pervicacia con cui ci aiuta a non credergli, nemmeno per un minuto.

tratto da http://eddyburg.it/article/view/16729/

Comunicato stampa


SI E’ COSTITUITO IL COMITATO PER 3 SI AI REFERENDUM CONTRO IL NUCLEARE E PER L’ACQUA BENE COMUNE

Il 12 marzo si è costituito a Terni e Narni il Comitato per 3 si ai referendum contro il nucleare e per l’acqua bene comune.

Il comitato si attiva per l’apertura immediata della campagna referendaria “vota SI contro il Nucleare”, affiancandola a quella dei “SI per l’acqua bene comune”, considerando grave l’assoluta assenza di comunicazione ufficiale sul prossimo voto referendario.

L’urgenza di una battaglia ambientalista che ricomponga la lotta per i beni comuni e contro il tentativo di installare in Italia centrali nucleari è fondamentale anche a seguito delle drammatiche notizie che provengono dalla tragedia del terremoto e del conseguente incidente nucleare in Giappone nella centrale di Fukushima.

Il comitato ha deciso di collaborare nella maniera più ampia e orizzontale con il “comitato per l’acqua pubblica”, costruendo anche iniziative comuni.

Il 17 marzo saremo presenti con tavolini informativi nelle piazze di Terni e Narni.

Il 22 marzo, giornata mondiale dell’acqua saremo ancora in piazza a Terni

Il 26 marzo organizziamo un pullman (info ed iscrizioni tel. 348 0961957 e 328 0966543) per la manifestazione nazionale a Roma “Vota si ai referendum per l’acqua bene comune! si per fermare il nucleare, per la difesa dei beni comuni, dei diritti , della democrazia

Il comitato è aperto a tutti/e e si riunisce tutti i lunedì dalle ore 18 alle ore 19,30 presso il centro sociale Germinal Cimarelli in via del Lanificio 19 a Terni.

Per informazioni acquabenecomunenonuke@gmail.com e 348 0961957 e 328 0966543

Comitato per 3 si ai referendum contro il nucleare e per l’acqua bene comune




venerdì 11 marzo 2011

This is England [Cineforum-Fuori Dagli Schermi]

Dopo aver terminato la prima tematica di questi cineforum (controllo sociale/Stato di Polizia) ora passiamo al tema sottoculture analizzando la realtà Skinhead inglese degli anni '80 con il film pluripremiato "This is England".
Il Film prodotto in inghilterra nel 2006 non è stato ancora doppiato in italiano per cui La proiezione sarà sottotitolata.... ma non scoraggiatevi, il film vale comunque sia la pena di essere visto e se vogliamo dirla tutta, un'eventuale doppiaggio avrebbe (forse) rovinato il lavoro degli attori inglesi....


Trama

nghilterra 1983. Shaun è un dodicenne spesso irriso dai compagni di classe. Al momento delle vacanze estive il ragazzino entra a far parte di un gruppo di skinhead, che lo prendono sotto la loro ala protettiva. In questo paesino della provincia inglese Shaun crescerà con i nuovi amici, tra Dr. Martens e contraddizioni, in un periodo difficile per la nazione coinvolta nella guerra delle Falkland.
Lo sguardo autobiografico del regista Shane Meadows sull'Inghilterra di inizio anni '80 è dolce e amaro. Traspare l'amore per la propria terra, manifestato con le musiche coinvolgenti dell'epoca e i tipici luoghi comuni della gioventù britannica, e si percepisce una forte critica a un paese che lo delude, perchè si cresce e si diventa adulti senza grosse prospettive. Shaun, interpretato dal bravissimo Turgoose, conosce già il dolore, toccato con la morte del padre nel conflitto con l'Argentina, i suoi occhi, tuttavia, comunicano speranza, vitalità, tipici di un'esistenza appena iniziata. Nel suo gruppo, vestito con la "divisa" (Dr. Martens, camicia a quadri, bretelle e testa rasata) convivono inizialmente giovani con la necessità di ideali, che compiono ragazzate e che si divertono come molti coetanei. È l'arrivo dell'elemento disturbante Combo (Stephen Graham) a innescare la bomba a orologeria, e una spirale razzista e violenta.
Il tic-tac del timer che conduce all'esplosione finale, è il rapido percorso di crescita del piccolo Shaun che, in seguito all'atto scellerato di Combo (che impersona il fascino del Male), compie il suo primo atto di volontà, di fronte all'immensa distesa di acqua salata.


martedì 8 marzo 2011

“È stato morto un ragazzo” [Cineforum- Fuori dagli Schermi]


Federico Aldrovandi ha da poco compiuto diciotto anni quando, all’alba del 25 settembre 2005, incontra una pattuglia della polizia nei pressi dell’ippodromo, a Ferrara. Poche ore più tardi la famiglia apprende della sua scomparsa. Fra questi due momenti tante domande e molti silenzi. Il libro ripercorre le vicende umane e giudiziarie legate alla morte di Federico, le ricostruzioni della polizia che parlano di morte per overdose,... lo stupore e il dolore di parenti e amici e un’inchiesta giudiziaria inizialmente destinata all’archiviazione… Poi i primi sospetti, il corpo sfigurato del ragazzo, le versioni ufficiali che vengono smentite dalle analisi, il coinvolgimento delle forze dell’ordine e i depistaggi. Lo scandalo, l’attenzione mediatica e il coraggio di una famiglia che, nel luglio del 2009, porteranno alle condanne in primo grado per quattro agenti di polizia. Nel DVD Filippo Vendemmiati racconta la storia di Federico Aldrovandi, i fatti accertati e misteri che li avvolgono, il processo e i suoi numerosi colpi di scena, tentando di fornire una spiegazione verosimile dell’accaduto proprio a partire da quegli interrogativi rimasti insoluti. La narrazione di Vendemmiati è arricchita dai documenti video registrati dagli stessi protagonisti, a disposizione nell’archivio giornalistico Rai.Federico Aldrovandi ha da poco compiuto diciotto anni quando, all’alba del 25 settembre 2005, incontra una pattuglia della polizia nei pressi dell’ippodromo, a Ferrara. Poche ore più tardi la famiglia apprende della sua scomparsa. Fra questi due momenti tante domande e molti silenzi. Il libro ripercorre le vicende umane e giudiziarie legate alla morte di Federico, le ricostruzioni della polizia che parlano di morte per overdose, lo stupore e il dolore di parenti e amici e un’inchiesta giudiziaria inizialmente destinata all’archiviazione… Poi i primi sospetti, il corpo sfigurato del ragazzo, le versioni ufficiali che vengono smentite dalle analisi, il coinvolgimento delle forze dell’ordine e i depistaggi. Lo scandalo, l’attenzione mediatica e il coraggio di una famiglia che, nel luglio del 2009, porteranno alle condanne in primo grado per quattro agenti di polizia. Nel DVD Filippo Vendemmiati racconta la storia di Federico Aldrovandi, i fatti accertati e misteri che li avvolgono, il processo e i suoi numerosi colpi di scena, tentando di fornire una spiegazione verosimile dell’accaduto proprio a partire da quegli interrogativi rimasti insoluti. La narrazione di Vendemmiati è arricchita dai documenti video registrati dagli stessi protagonisti, a disposizione nell’archivio giornalistico Rai.

“È stato morto un ragazzo” è anche una storia sulla libertà di stampa di Filippo Vendemmiati

Ho cominciato ad occuparmi della storia di Federico Aldrovandi non proprio dall’inizio, e anche di questa pigrizia e scetticismo professionale il film racconta. Come cronista Rai avevo già seguito inchieste come il disastro dell’aereo militare caduto il 6 dicembre del ‘90 su una scuola di Casalecchio di Reno, e costato la vita a dodici ragazzi, o l’assassinio del Prof. Marco Biagi, ad opera di un commando delle Nuove B.R., il 19 marzo del 2002.
La morte di Federico poteva essere un fatto come altri, ma su questo a differenza di altri ho deciso di fermarmi e considerare, per una volta, che valeva la pena raccontare la storia e non la notizia. Ho conservato le video cassette originali, i taccuini con gli appunti, tutti quegli strumenti usa e getta che oggi fanno del giornalista un uomo che ha sempre fretta, in preda ad un falso (e isterico) movimento. Volevo scrivere un libro di cronaca, poi l’archivio con centinaia di immagini mi ha convinto che erano quelle a dover essere raccontate, cosi ho deciso di mettermi al loro servizio. E’ una storia che ha a che fare con il sistema dell’informazione e della giustizia, con la violenza delle istituzioni e il diritto alla giustizia dei cittadini. I genitori di Federico e i loro legali sono andati avanti non accontentandosi delle versioni ufficiali, raccogliendo brandelli di verità nonostante i tanti tentativi di insabbiamento e mistificazione che hanno accompagnato il caso fin dai primissimi istanti. Per arrivare infine ad una verità anche peggiore di quanto temessero, dopo aver aperto i cassetti dei ricordi e del dolore accettando di renderli pubblici. Ho parlato loro di questo progetto, ne ho ricevuto un consenso incondizionato, senza il quale non avrei mai iniziato. Il lavoro è durato un anno, e devo solo alla famiglia di Federico la forza e la voglia di arrivare in porto, perché la passione e l’impegno nella parte realizzativa si sono duramente scontrati contro ostacoli burocratici e legali.
Dice Patrizia, la mamma, nel film: “La notizia della morte di Federico dopo poche settimane era sparita dai giornali locali, è rimbalzata a Ferrara da fuori, dopo l’apertura del mio blog”.
Senza mai arrendersi, ricorrendo anche agli strumenti della comunicazione via internet, Patrizia e il marito, Lino, sono riusciti a far pubblicare la storia di Aldro sulle prime pagine dei media nazionali, e a dare impulso ed elementi investigativi ad un’inchiesta ormai destinata all’archiviazione. A quattro mesi dalla morte di Federico il fascicolo del pubblico ministero era infatti praticamente vuoto.
Nel film, che ha ottenuto l’appoggio dell’associazione Articolo 21 e della Federazione Nazionale della Stampa Italiana, oltre al patrocinio della Regione Emilia Romagna, ho utilizzato documenti originali, spezzoni dell’inchiesta, filmati d’archivio e inserti narrativi.
“È stato morto un ragazzo” è anche una storia sulla libertà di stampa che pone l’accento sul presente e sul futuro prossimo dell’informazione in Italia. Se la legge bavaglio fosse stata in vigore cinque anni fa, senza poter pubblicare gli atti, le foto, le trascrizioni delle telefonate, si sarebbe mai scoperta la verità sulla morte di Federico e quella di altri casi simili, avvenuti prima e dopo?
Sono stato definito un giovane autore. Ringrazio particolarmente per il giovane, del resto quel conta è l’età percepita. Quanto ad “autore”, sarà il giudizio sul film a stabilire fino a che punto io abbia saputo esserlo.


lunedì 7 marzo 2011

PER UN 8 MARZO RESISTENTE!!


La RETE DONNE UMBRE AUTOCONVOCATE (Le De’genere-Terni; Sommosse-Perugia; Civiltà Laica-Terni; L'albero di Antonia-Orvieto) INVITA TUTTE LE COMPAGNE INTERESSATE ALL'INIZIATIVA ORGANIZZATA PER L'8 MARZO SOTTO LA SEDE DELLA REGIONE UMBRIA A PERUGIA, sulla libertà di scelta per le donne in materia di RU486 ed in generale sul grave USO POLITICO in atto DEI CORPI DELLE DONNE. Grazie
8 MARZO PRESIDIO delle DONNE sotto la sede della REGIONE UMBRIA. RU486: LIBERE DI SCEGLIERE! NO ALL'USO POLITICO DEI NOSTRI CORPI!

A distanza di più di trent’anni dalla vittoria del referendum che nel 1978 portò alla Legge 194 e sancì il diritto all’interruzione di gravidanza, come donne denunciamo l’attacco a questo diritto e ribadiamo che sul nostro corpo decidiamo noi e nessun altro.

L’8 Marzo organizziamo una giornata di lotta delle donne con una manifestazione sotto la sede della Regione Umbria, per ottenere l’uso della pillola abortiva RU486 senza ipocrite e pesanti limitazioni e come libera scelta alternativa all’aborto chirurgico. Infatti se il diritto all’interruzione di gravidanza è garantito dalle legge 194, dal referendum e dalle lotte delle donne, la sua realizzazione è sempre più ardua, quasi un “calvario” psicologico di espiazione e punizione con inaccettabili ed indecenti ostacoli burocratici, di matrice politica e clericale.

Negli ospedali pubblici l’opportunista presenza di “obiettori” e “obiettrici” impedisce a molte di scegliere liberamente e rafforza l’atteggiamento criminalizzante rispetto alla scelta di abortire, basti pensare che prima dell’interruzione di gravidanza si aspetta nel reparto maternità!

Oggi in tutta Europa le donne possono scegliere un intervento meno invasivo rispetto all’aborto chirurgico utilizzando la pillola abortiva RU486. In Italia questo non è possibile o è molto difficile. La pillola RU486 è stata bloccata per anni per le pressioni clericali, ora mille vincoli e ostacoli “burocratici” si frappongono al suo uso.

In Europa la pillola abortiva viene prescritta dal medico di base, senza passare in ospedale e il termine per l’assunzione della RU486 è fissato dalla 9° alla 24° settimana. In Italia sugli aspetti etici sembra esserci una “dittatura” vaticana, con l’appoggio di obbedienti e devoti politici di centro, destra e sinistra, alla faccia della laicità dello stato. Infatti l’assunzione è possibile solo entro la 7° settimana (mentre l’aborto è legale sino alla 12°!) e in molte regioni del Belpaese l’assunzione della RU486 è possibile solo con un ricovero ordinario di 3 giorni! Di fatto quindi non c’è un accesso libero alla RU486 nonostante il Consiglio Superiore di Sanità non abbia mai affermato che la pillola rappresenti un reale rischio per la vita della donna, né abbia mai obbligato le Regioni a deliberare per il regime di ricovero ordinario.

In Umbria continuano i balletti politici per ritardare la somministrazione e porre barriere burocratiche e formali per impedirne la diffusione. La Regione nel 2010 ha incaricato un “Comitato tecnico-scientifico”, formato da ginecologi e medici, della stesura del protocollo applicativo, che è stato presentato il 26 Luglio 2010 e che si è espresso per il day hospital. Dopo la presa d’atto della Regione due consiglieri della maggioranza, Smacchi e Barberini (PD), con il plauso dell’UDC, si sono opposti e hanno bloccato il regime di day hospital proponendo un ulteriore peggioramento: un anno di “sperimentazione” (sono oltre 20 anni che la RU si usa in Francia!) con tre giorni di ricovero ordinario obbligatorio! E’ un ulteriore uso politico del corpo delle donne! Il “pio” presidente del Consiglio regionale Brega, nella peggiore tradizione dei movimenti per la “vita”, ha affermato che «occorre evitare la banalizzazione di una questione estremamente delicata: assumere la pillola abortiva non è come prendere una pastiglia per il mal di testa, non si può correre il rischio di favorire un ricorso superficiale alla stessa». E la delibera? Ancora non esiste e regna sovrano il caos: le ASL più sensibili applicano la somministrazione grazie all’autonomia ma vengono puntualmente redarguite dalle pressioni dei movimenti cattolici e sono costrette al ricovero ordinario di tre giorni per via di direttive-minacce superiori.

E le donne? Noi riaffermiamo che la nostra libertà di scelta non è negoziabile


MARTEDI’ 8 MARZO ore 10,00 PRESIDIO di DONNE sotto la REGIONE Corso Vannucci, 96 PERUGIA

RETE DONNE UMBRE AUTOCONVOCATE:

Le De’genere-Terni; Sommosse-Perugia; Civiltà Laica-Terni; L'albero di Antonia-Orvieto

venerdì 4 marzo 2011

Maghreb e mercati finanziari: la logica del contagio

di Christian Marazzi

Chi segue quanto sta accadendo nel Nord Africa e nel Medio Oriente con un occhio sui mercati finanziari non può non essere colpito da alcune similitudini, ma anche da differenze fondamentali. Ad esempio la logica del contagio, ossia del mimetismo che travolge qualsivoglia aspettativa razionale. Sui mercati finanziari è il deficit d’informazione che porta i soggetti economici a imitare l’Altro per definire (scegliere/eleggere) il rappresentante universale della ricchezza storicamente dato (che può essere la moneta “equivalente generale”, oppure i titoli tecnologici, i titoli subprime, le commodities, ecc., insomma le “convenzioni collettive” di keynesiana memoria). Si innesca in tal modo un movimento contagioso all’interno della comunità degli investitori che, di volta in volta, produce la sua bolla finanziaria, destinata a esplodere quando il processo diventa talmente autoreferenziale da perdere ogni rapporto col reale. E’ la razionalità dell’irrazionalità, o “razionalità collettiva”, dei mercati. I processi rivoluzionari nell’epoca del capitalismo finanziario globale sembrano funzionare secondo la medesima logica, ma solo in superficie. In realtà, il contagio, la prassi mimetica che caratterizza le insurrezioni delle moltitudini nord africane e medio orientali, non sono originate da un deficit d’informazione, bensì dal suo contrario, da un eccesso d’informazione che dà il via a mobilitazioni in regioni contigue e non, tra loro differenti per composizione sociale, PIL pro capite, tasso di inflazione, percentuale di disoccupazione giovanile, ecc. (vedi Wealth Management Research, “Global financial markets”, UBS, 24 febbraio). Il veicolo del contagio sono sempre, o spesso, le tecnologie della comunicazione, ma la direzione è opposta: se sui mercati finanziari l’autoreferenzialità non ha referente materiale, nei movimenti insurrezionali il referente materiale è il corpo sociale. La stessa informazione, o il suo concetto, e le sue modalità di diffusione, non si prestano a facili interpretazioni. Se si leggono le cronache di Maurizio Matteuzzi, il giornalista embedded de “il manifesto”, sembrerebbe che, a prevalere, sia la disinformazione, l’opacità dei fatti e delle notizie.L’informazione e il suo “eccesso” non riguardano quindi l’imitazione dell’altro, come sui mercati finanziari, ma l’imitazione di se stessi, della propria singolarità. Una singolarità piena di desiderio di libertà e di autodeterminazione.Di voglia di vivere.

Sul futuro del mercato petrolifero la confusione è massima. Da una parte, tutti gli analisti convengono che la Libia non è il problema: se è vero che già il 60 per cento della produzione è stato congelata, ciò che corrisponde alla perdita dell’1.1 percento dell’offerta mondiale di petrolio, l’Arabia Saudita può facilmente colmare una perdita di questa entità. Dall’altra parte, come osserva The Economist (“Oil pressure rising”, 26 febbraio), dagli anni ’70 ad oggi il petrolio si è notevolmente globalizzato. Ad esempio, la Russia ha superato l’Arabia Saudita come produttore mondiale di greggio. La quota dell’OPEC nella produzione mondiale è scesa dal 51 per cento di metà anni ’70 a poco più del 40 per cento di oggi. Il problema è politico, dato che le spare capacities, le riserve, sono essenzialmente saudite e dato che dal Bahrain, confinante con l’Arabia Saudita, dove la produzione di petrolio è minima, passa comunque il 18 per cento del greggio mondiale. Non a caso la scorsa settimana il re saudita si è affrettato ad annunciare la distribuzione di 36 miliardi di dollari ai suoi cittadini! Quindi, le previsioni sono molto azzardate. Si passa da 120 a 220 dollari al barile del Brent, anche se i più si aspettano nel medio termine (?) un ritorno a 100 dollari Si tenga conto che, secondo una stima “a spanna” che circola tra gli economisti, un aumento prolungato (per i prossimi due anni) del 10 per cento del prezzo del petrolio comporta, mediamente, una riduzione di mezzo punto percentuale del PIL globale. Negli Stati Uniti, dove la terziarizzazione avanzata dell’economia ha comportato una diminuzione sensibile del consumo di petrolio per unità di prodotto rispetto agli anni del fordismo, lo stesso 10 per cento d’aumento del prezzo comporta uno 0.2 per cento di riduzione del PIL e uno 0.1 percento di aumento della disoccupazione (Financial Times, “Oil price surge puts fragile US recovery at risk”, 25 febbraio).

In ogni caso, affidarsi ai modelli previsionali serve a poco (non funzionano in tempi di crisi politica). E’ invece molto probabile che uno shock sui mercati petroliferi abbia il medesimo effetto della crisi del debito sovrano europeo dello scorso anno, quindi: perdita di fiducia sui mercati finanziari, caduta dei prezzi delle azioni, ritorno della recessione. E, come accadde lo scorso anno, tentazione di rilanciare la quantitative easing, la creazione di moneta da parte della Federal Reserve. Solo che oggi il rischio d’inflazione c’è. O, meglio: un aumento del prezzo del petrolio, distraendo il consumo da altri beni, crea una situazione schizofrenica: da una parte aumentano i prezzi della benzina (e non si sa per quanto tempo), dall’altra il paniere di beni su cui è misurata l’inflazione (core inflation) resta fermo, almeno fino a quando le aspettative d’inflazione non innescano un processo di self-fulfilling prophecy, forzando la Fed ad intervenire con l’aumento dei tassi d’interesse. La gestione dell’inflazione, insomma, è un vero e proprio dilemma per le autorità monetarie, anche perché le rivendicazioni salariali sarebbero difficili da contenere malgrado gli alti tassi di disoccupazione. La situazione è ancora peggiore in Europa, e non è migliore nei paesi emergenti (maggiore consumo d’energia per unità di prodotto). C’è da aspettarsi una dinamica del genere: lotte salariali e lotte sul reddito sociale contro la rendita petrolifera. Virtù dei beni comuni, dei commons!

mercoledì 2 marzo 2011

Rivolte nei Cie accompagnano le manifestazioni del 1 marzo

bologna_nocie1
Gradisca, Modena ,Torino, Bologna: si allargano le sollevazioni dentro i Cie.


Se il primo Marzo deve essere una giornata di mobilitazione per ma soprattutto dei migranti, è giusto e naturale che a questa giornata partecipino anche quei/le migranti che patiscono la forma più dura di controllo e negazione dei diritti: i reclusi e le recluse dei cie. E così, con l'avvicinarsi della scadenza - e forse anche caricati dalle vittorie dei loro fratelli e sorelle sull'altra sponda del Mediterraneo - i reclusi di alcuni di questi lager etnici sono stati protagonisti di rivolte, talvolta sfociate in vere e proprie distruzioni di pezzi consistenti delle strutture di reclusione

E' stato chiuso e dichiarato inagibile un blocco del Centro di identificazione di Torino dopo che ieri sera intorno alle 22,30 un incendio ha distrutto quattro moduli su cinque dell'area gialla.alt
I reclusi del a cosiddetta "area gialla" hanno incendiato tutto l'incendiabile, rendendo di fatto inagibile l'area gialla. I Vigili del Fuoco sono arrivati molto rapidamente e intorno alle 22,35 hanno spento le fiamme. Intorno alle 22,45, un recluso ha spiegato ai microfoni di Radio Blackout che la polizia ha raggruppato i prigionieri nel campo da calcio, sotto la pioggia, circondandoli con i manganelli ma senza picchiare nessuno.
Nel Cie del capoluogo piemontese, due settimane fa sono stati trasferiti in tutto una cinquantina di magrebini arrivati sull'isoletta siciliana. Solo alcuni di loro - da quanto si è saputo - ha partecipato all'iniziativa della scorsa notte. Al momento sono circa 130 le persone ospitate all'interno della struttura di corso Brunelleschi.

Una manifestazione di protesta del centro sociale Tpo ha scatenato una rivolta all’interno del Cie di Bologna. Circa un centinaio di aderenti al centro questa mattina verso le 10 ha scavalcato il muretto di cinta che divide la struttura dalla massicciata della ferrovia e ha raggiunto la cancellata dell’ex Cpt. Lì i manifestanti sono stati respinti dai militari impegnati nella sorveglianza del centro. Con i megafoni i manifestanti hanno urlato la loro solidarietà all’indirizzo degli ospiti che hanno innescato una rivolta incendiando alcuni materassi poi spenti dai vigili del fuoco.


A dare il via a questo nuovo ciclo di sommosse contro le strutture della reclusione migrante erano stati gli "ospiti" del Cie di Gradisca, in Friuli,letteralmente raso al suolo lo sorso 25/26 febbraio dopo due giorni di rivolta furiosa che ha lasciato in piedi soltanto poche camerate per 130/140 detenuti. I giorni seguenti sembra siano stati rilasciati oltre 30 detenuti, nel silenzio dei media e la frustrazione dei locali secondini.


Una sommossa ha pure avuto luogo domenica pomeriggio a Modena, con materassi che bruciano e finiscono in cortile proprio nel momento in cui si svolge fuori dalle mura un presidio di solidarietà. Il racconto della rivolta sul sito Fortress Europe.

martedì 1 marzo 2011

Corso di Italiano per Stranieri



Corso Gratuito di italiano per migranti.
Non servono Documenti.
Iscrizioni il 27/2 e il 03/3 dalle 15 alle 18


CSA Germinal Cimarelli
Terni
Via del Lanificio 19/a
tel. 3311427489
email: corsoitaliano2011@libero.it



[Progetto IG OPEN 2009/10 Ass. Lavagne]

Appello nazionale per il Primo Marzo 2011

altAppello nazionale del movimento Primo Marzo insieme contro il razzismo, contro i ricatti, per i diritti di tutte e tutti

Lo scorso Primo Marzo oltre 300mila persone si sono mobilitate in tutta Italia per dire no al razzismo, alla legge Bossi-Fini, al pacchetto sicurezza, ai CIE e sì a una società multiculturale e più giusta. In molte città lavoratori italiani e migranti hanno scelto di scioperare insieme, uniti dalla consapevolezza che il razzismo istituzionalizzato (in spregio alla nostra Costituzione oltre che al diritto internazionale e alla normativa europea), le politiche di esclusione, lo sfruttamento del lavoro, le violazioni dei diritti sono tasselli di un’unica strategia repressiva che, a partire dai più deboli e inermi, aspira a colpire tutti e a imporre la precarietà come orizzonte di vita.

Migranti e italiani hanno affermato in questo modo un’idea di sciopero diversa da quella dominante (non uno strumento di protesta nelle mani dei sindacati ma un diritto costituzionale, individuale e inalienabile), hanno dimostrato che è possibile unirsi e prendere l'iniziativa dal basso per reagire ai ricatti. Hanno superato nei fatti la contrapposizione tra autoctoni e stranieri e inaugurato una stagione di impegno e di lotta, di rifiuto dei ricatti e dello sfruttamento, passata dallo sciopero delle rotonde in Campania alle occupazioni della gru e della torre a Brescia e Milano, da Pomigliano a Mirafiori, dalle mobilitazioni degli studenti allo sciopero dei metalmeccanici e marcata da manifestazioni antirazziste a Bologna, Firenze, Trieste e in tante altre città italiane.

La situazione italiana di oggi è diversa da quella di un anno fa e forse ancora più grave. Non c’è stata un’altra Rosarno, ma gli effetti della crisi si sentono sempre di più e colpiscono soprattutto i migranti: in migliaia rischiano di perdere il permesso di soggiorno, in migliaia che il permesso non lo hanno vengono indicati come criminali e condannati al lavoro nero gestito dai caporali. Per tutte e tutti vige il ricatto quotidiano del razzismo istituzionale. In questo quadro la Bossi-Fini (in particolare la sua pretesa di legare il permesso di soggiorno al contratto di lavoro con il “contratto di soggiorno”) si rivela più che mai come una legge inadeguata e ipocrita, che non combatte la clandestinità ma la crea, favorendo sfruttamento e lavoro nero e ponendo i migranti in una condizione di costante ricattabilità. Per oltre 50mila immigrati, vittime della sanatoria truffa, non è stata trovata ancora una soluzione. Nel frattempo il governo è tornato a lanciare la lotteria del decreto flussi che – come tutti sanno – funziona principalmente da sanatoria mascherata. La questione della cittadinanza rimane insoluta e centinaia di giovani nati o cresciuti in Italia continuano a sottostare a una legge che non riconosce loro diritti né cittadinanza. Le rivoluzioni di piazza che stanno attraversando il Nord Africa segnalano un’aspirazione alla libertà che ha nelle migrazioni una delle sue declinazioni e che sta portando a un prevedibile aumento degli sbarchi (per altro mai interrotti) sulle nostre coste: di fronte a tutto questo la risposta italiana si sta rivelando ipocrita e inadeguata: si evoca ancora una volta un inesistente “stato di emergenza” solo per non rispettare il diritto di asilo ed evitare accogliere le persone che stanno arrivando sulle nostre coste. Ciò ci dice che mentre molti festeggiano senza problemi l’ondata di democrazia nel Nord Africa, le migrazioni uniscono le due sponde del Mediterraneo: nello spirito della Carta dei Migranti recentemente approvata a Gorée (Senegal), noi sappiamo che il problema della democrazia italiana sta anche a Tunisi, così come quello della Tunisia è anche a Roma o a Parigi. Mentre si lotta per la democrazia in Nord Africa, non possiamo accettare la logica razzista dell’”aiutiamoli a casa loro”, perché i migranti ci dicono che si lotta anche per muoversi e cambiare le proprie condizioni di vita. È quello che insieme vogliamo fare il 1 marzo.

In questo quadro i migranti sono ancora di più una forza. Per ragioni economiche, come molte volte è stato sottolineato: producono infatti una parte consistente del PIL (11%), alimentano le casse dello Stato con le tasse e i contributi previdenziali, sopperiscono con il lavoro di cura alle carenze strutturali del welfare italiano. Ma anche per ragioni sociali e culturali: rappresentano infatti una parte attiva e determinante nella costruzione di società diversa: più ricca, variegata, multiculturale e capace di guardare al futuro. Senza di loro, senza i bambini figli di migranti e coppie miste, l’Italia sarebbe oggi una nazione destinata ad estinguersi. Soprattutto, i migranti sono una forza politica per costruire una società diversa, per non limitarsi a difendere i diritti ma reagire ai ricatti conquistandone di nuovi.

Per questo lanciamo un appello per costruire il prossimo primo marzo una nuova grande giornata di sciopero e mobilitazione per i migranti e con i migranti. Ma, lo sottoliniamo con forza, non si tratta di uno sciopero etnico: non è mai esistita e non esiste l’idea di uno sciopero etnico. In diversi territori sono già attivi percorsi che comprendono scioperi, presidi e manifestazioni. Crediamo che lo strumento dello sciopero sia il modo più forte per portare avanti questa lotta, migranti e italiani insieme contro i ricatti, contro il razzismo, contro lo sfruttamento e per chiedere:

  • l’abrogazione della Bossi-Fini e, in particolare, del nesso tra contratto di lavoro e permesso di soggiorno (“contratto di soggiorno”);
  • per contrastare il lavoro nero e lo sfruttamento dei lavoratori migranti: rivendichiamo l’applicazione e l’estensione dell’articolo 18 del testo unico sull’immigrazione come tutela per tutti i lavoratori che denunceranno di essere stati costretti all’irregolarità del lavoro;
  • l’abrogazione del reato di clandestinità e del pacchetto sicurezza che già oggi rappresentano provvedimenti fuori legge perché in netta contrapposizione con la direttiva europea sui rimpatri;
  • l'abolizione del permesso di soggiorno a punti e l’attivazione di misure, anche di tipo economico, atte a garantire il diritto ad apprendere l’italiano e a studiare;
  • la chiusura dei CIE;
  • una regolarizzazione che sia una soluzione reale e rispettosa dei diritti umani e della dignità delle persone per le vittime della sanatoria truffa;
  • il passaggio dal concetto di ius sanguinis a quello di ius soli come cardine per il riconoscimento della cittadinanza e una legge che garantisca l’esercizio della piena cittadinanza a chi nasce e cresce in Italia;
  • il riconoscimento del diritto di scegliere dove vivere e stabilire la propria residenza, diritto quanto mai fondamentale in un’epoca come quella che stiamo attraversando in cui tutti siamo potenziali migranti;
  • una legge organica e adeguata per la tutela dei rifugiati e dei richiedenti asilo;

Chiediamo a tutti di essere protagonisti e di sostenere le mobilitazioni dei migranti il prossimo primo marzo. Ai sindacati non chiediamo un’adesione formale, ma di attivarsi a tutti i livelli per sostenere concretamente i lavoratori, migranti e italiani insieme, che decideranno di astenersi dal lavoro nelle fabbriche, nelle cooperative e in tutti i luoghi di lavoro più o meno formali. A tutti questi è indirizzata questa giornata, per rendere effettivo il diritto di sciopero, per i diritti di tutte e tutti, per costruire insieme una società diversa e multiculturale rifiutando ogni complicità con provvedimenti normativi che legalizzano sfruttamento, razzismo, pregiudizio e paura.

Il 1 marzo dovrà vedere una mobilitazione quanto più possibile diffusa, per permettere la massima partecipazione, sia in caso di scioperi, sia in caso di presidi o manifestazioni.

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