mercoledì 28 luglio 2010

Cambogia: scontri tra polizia e operaie, 9 ferite


E' di almeno 9 ferite il bilancio degli scontri tra la polizia e le operaie di una fabbrica di Phnom Penh che produce capi d'abbigliamento per grandi gruppi occidentali tra cui Gap, Benetton, Adidas e Puma. Le forze dell'ordine, in assetto anti-sommossa, hanno cercato di far tornare in fabbrica le circa 3mila operaie in sciopero da una settimana per la sospensione dal lavoro di una rappresentante sindacale.

Le operaie sono state spinte al suolo e stordite con bastoni a impulsi elettrici, almeno 9 sono state ferite dai poliziotti. La polizia ha provato ad interrompere la protesta operaia. L'industria tessile cambogiana, terzo motore della crescita del paese dopo agricoltura e turismo, ha risentito pesantamente della crisi globale, recentemente sono aumentate le proteste per le condizioni di lavoro ed i salari; sono almeno 300mila cambogiani, su una popolazione di 13.4 milioni di persone, impiegati nel settore della manifattura tessile.

mercoledì 21 luglio 2010

Concerto del 31/07 Dei Quartiere Cofee ANNULLATO

Continuiamo ad essere impossibilitati ad effettuare concerti, causa Sindaco Sceriffo, il quale non ha pistole, ma è ben armato con ordinanze repressive per la cultura e l'aggregazione sociale, ed una serie di scagnozzi che si occupano del lavoro sporco (La municipale).Nel... frattempo stiamo facendo del tutto per riuscire a riprendere l'attività il prima possibile, sia sul piano tecnico (permessi, ricorsi e proroghe) sia sul piano politico: Stiamo chiedendo la cancellazione delle ordinanze Antirumore ed Antibivacco tramite raccolta firme ( http://firmiamo.it/farerumore ) Questo è il link dove potrete firmare la petizione, se no potete anche trovarlo sul nostro blog http://bgcterni.blogspot.comCiscusiamo/ per il disagio.

Il CSA Germinal Cimarelli

In uno Stato che tortura e uccide chi si ribella è sempre innocente



Ieri, nell’anniversario della morte di Carlo Giuliani, i compagni e le compagne dell’Assemblea nazionale antifascista hanno portato uno striscione a Genova per ricordare Carlo e tutti i compagni, molti ancora sotto processo, che in quelle giornate si sono ribellati. Di seguito il comunicato.


Ricordare Carlo Giuliani e i giorni del G8/2001 è il primo motivo per cui ci troviamo oggi qui a Genova; pensiamo però sia anche necessario ragionare sul significato politico che Genova 2001 ha avuto; a nove anni di distanza abbiamo forse più sangue freddo e più dati su cui tirare alcune conclusioni.


I processi nei confronti dei membri delle forze dell’ordine hanno dimostrato (se mai ce ne fosse stato bisogno) quanto fosse scelta precisa dello Stato quella di reprimere violentemente i manifestanti. Possiamo affermare questo se consideriamo che i funzionari di polizia e carabinieri che si sono resi protagonisti di pestaggi e torture vengono difesi quando non promossi a cariche più alte. Tutto questo, unito alle lievi condanne che sono state inflitte a queste persone, hanno dimostrato l’impunità in cui agiscono le forze dell’ordine nel nostro paese.


Un’impunità che si è palesata successivamente nei numerosi casi di omicidi di Stato di questi anni: Aldrovandi, Bianzino, Lonzi, Cucchi, sono solo alcune delle numerose persone che hanno perso la vita o sono state torturate tra le mani delle divise.


Tra le migliaia di persone che in quei giorni si ribellavano con determinazione alla studiata violenza del potere, si sono scelti 25 capri espiatori, destinati a fare la parte dei cattivi per dimostrare a tutti che la repressione di quei giorni era dovuta alla loro presenza.
Da una parte lo Stato che attacca con violenza brutale e preordinata la protesta, dall’altra i manifestanti che con orgoglio e dignità non si sono piegati a questi soprusi.


Questo meccanismo si è ripetuto negli anni a venire, dalle lotte per il territorio a quelle per il lavoro, fino ad arrivare alle recenti proteste dei terremotati aquilani: “c’erano gli antagonisti, abbiamo bastonato”. Non importa cosa hai fatto, in quale contesto, per quali motivi ciò che conta è la tua identità politica. Tra i 25 compagni, processati per le proteste del G8 2001 alcuni rischiano pene dai 7 ai 15 anni.
Il perpetrarsi di tali avvenimenti e l’autolegittimazione continua da parte dello Stato e dei suoi servi, ha come effetto che nell’opinione pubblica si accetti come fatto normale che le forze dell’ordine possano uccidere e torturare e che chiunque sia portatore di dissenso o tenti di organizzarlo, debba per forza di cose essere duramente pestato o incarcerato. Troppo spesso e sempre di più, ci si trova in condizione di doversi difendere da accuse che colpiscono i compagni più “per ciò che si è e non solo per ciò che si fa”; questo tipo di attacco ha dunque l’obiettivo di paralizzare qualsiasi forma di dissenso, organizzata o spontanea che sia.


L’unità delle lotte e dei percorsi è la principale barriera da costruire contro la repressione di Stato, insieme alla creazione di una rete di solidarietà attiva che permetta di costituire e diffondere quegli anticorpi sociali necessari per difendersi da fascisti e repressione.
Non possiamo perciò che essere vicini a chi in quei giorni si è ribellato a tanta ingiustizia e vogliamo portare all’attenzione di tutti l’importanza di difendere questi compagni, senza alcuna distinzione, e impedendo che cali il silenzio su queste condanne.


In uno Stato che tortura e uccide chi si ribella è sempre innocente.


Assemblea Nazionale Antifascista

Comunicato Stanpa "Movimento delle lucciole"




il “movimento delle lucciole” suggestione che ha origine nell'articolo di Pasolini “la scomparsa delle lucciole” -pubblicato nel '75 sul Corriere della Sera-.che accomuna molte delle associazioni che si occupano di cultura ed aggregazione nella città di Terni, nato a seguito delle gravi sanzioni che hanno colpito Il Centro di Palmetta ed il Centro Sociale Germinal Cimarelli, ha raccolto più di mille firme attraverso la petizione per richiedere il ritiro delle ordinanze antirumore ed antibivacco.


L'azione di sensibilizzazione ed informazione relativa alle ordinanze è partita solo 15 giorni fa e da allora la rete si è allargata molto, sono già 46 le realtà ed associazioni locali e nazionali che hanno aderito al documento programmatico del movimento definito,

Oltre alle sottoscrizioni alla petizione cartacea ed on-line, in questi primi 15 giorni di mobilitazione si contano già 1316 iscritti al gruppo facebook "Togliamo la sordina a Terni", e decine di messaggi di solidarietà arrivati ai diversi Centri dai cittadini, dai fruitori e dagli artisti che li hanno frequentati.
Il movimento, nato dall'incontro tra associazioni ma costituito prima di tutto da cittadini, desidera ringraziare tutti coloro che hanno dimostrato la propria solidarietà e li invita a non perdere l'attenzione su questo argomento. Attenzione che per altro sembra viva anche nell'amministrazione, che domani incontrerà le associazioni ternane per un confronto sulle ordinanze emesse e le loro conseguenze, un buon segno di apertura.




martedì 20 luglio 2010

Cena per ricordare Carlo Giuliani


20 luglio 2001 Genova le manifestazioni contro il g8 stanno marciando per le strade della città, l'ordine publico è in mano ad inetti fascisti e violenti che decidono di troncare ogni forma di protesta, le persone ferite sono centinaia le guardie del sistema sempre piu accanite,... c'è un ennesimo scontro dopo, giorni di lotta la gente non resiste e risponde alle intimidazioni....
in piazza Alimonda non si sa bene chi esplode un colpo di pistola verso un ragazzo "Carlo Giuliani" un ragazzo come migliaia uguali a lui che quella mattina erano scesi in piazza per cercare di cambiare un po questo mondo che ci opprime.
non contenti le guardie all'interno del defender passano sopra il corpo del ragazzo steso a terra per ben 2 volte.
la notizia inizia a girare e i compagni si concentrano nella piazza, subito inizia il teatrino degli sbirri per prima cosa circondano il corpo del ragazzo morto picchiano chiun que si voglia avvicinare...............

Sembra fantascenza ma è avvenuto il 20 luglio del 2001 non molti anni fa e contro chi vuole mistificare quello che è accaduto chi vuole dirci che quello era un terrorista, un facinoroso, nori rispondiamo che Carlo era un ragazzo, un compagno come noi....
E noi non lo dimentichiamo, per questo venerdi 23 luglio presso il csa Germinal Cimarelli avrà luogo una cena e proiezione di filmati che riportano alla mente la mattanza di Genova..




VI ASPETTIAMO TUTTI ALLE 20:00 AL CSA GERMINAL CIMARELLI PER CENA DI AUTOFINANZIAMENTO
costo della cena 8 euro
MENU
pasta fredda
prosciutto e melone
cus cus
caprese
crostate


DURANTE LA CENA VERRANNO PROIETTATI I FILMATI

"Fare un golpe e farla franca"
"OP" ordine pubblico


CARLO VIVE

Il volo estivo degli avvoltoi


Il balletto intorno ai morti, il loro uso a scopo propagandistico, è quanto di più osceno si possa immaginare: il volo degli avvoltoi intorno ai cadaveri dura a volte anni e anni e non si ferma neanche d’estate. E così anche quest’anno, puntuale come il Natale, stiamo assistendo alla strumentalizzazione di Carlo Giuliani, nei giorni in cui ricorre l’anniversario del suo assassinio. Nichi Vendola, per lanciare la sua candidatura a successore di Berlusconi (…), non ha esitato infatti a farsi un po’ pubblicità dichiarando che deve vincere per gli eroi dei nostri giorni, «Falcone, Borsellino e Carlo Giuliani», definito «l’eroe ragazzino» (leggi). Immediatamente “Nikita” è balzato su tutte le prime pagine dei giornali: e via con le critiche al suo “paragone”, che viene definito “aberrante” e “folle” (da Germana, del Pdl, partito i cui esponenti giudicano un “eroe”, invece, Vittorio Mangano), “vergognoso” (da Bertolini, sempre Pdl), frutto di una “sbornia colossale” (da un sindacato di polizia), “delirante” (da Cavaliere, della Giovane Italia), “forzato, rozzo e volgare” (da un articolo sul sito di La7 che, in modo questo sì forzato, rozzo e volgare, paragona e assimila Carlo alla mafia). Un momento di celebrità, uno spazietto in cui fare le proprie dichiarazioni, non si nega a nessuno, né a Vendola né a Cavaliere, soprattutto in questi periodi estivi in cui i media hanno come massima occupazione quella di spiegarci che non è il caso di uscire di casa tra le 2 e le 4 del pomeriggio, specialmente se si è anziani. E in questo contesto ha trovato il suo spazio anche Luciano Violante che, mentre nel 1996 invocava alla comprensione di quei “ragazzi” di Salò che combatterono per la Repubblica sociale italiana, oggi non esita a definire “un errore che va corretto subito” il commento di Vendola: almeno su questo, nessuno potrà dire che non ci sia sintonia tra dirigenza e base del Pd, se la base è quella che l’anno scorso, a Genova, ha applaudito entusiasta Gianfranco Fini – lo stesso Gianfranco Fini che nei giorni del G8 stava nella centrale operativa della Questura di Genova mentre centinaia di compagni e compagne venivano massacrati per le strade – che affermava di essere soddisfatto che la Corte europea per i diritti dell’uomo avesse stabilito con una sentenza che Placanica aveva agito per legittima difesa (vedi). Anche il tg di La7, neodiretto da Enrico Mentana, ha potuto dire due – scandalizzate – parole su Carlo Giuliani, “rimasto ucciso per un colpo di pistola sparato da un defender” (come si sa, i defender sparano da soli…). Non poteva mancare, infine, il commento di Pigi Battista sul Corriere della sera, che almeno – e questo è tutto dire – non nega un tributo di rispetto a Carlo Giuliani, pur negando, nella migliore tradizione, che il suo sia stato un “delitto di Stato” (leggi).

“Nikita” quindi, ottenuta la pubblicità che desiderava speculando senza ritegno sulla morte e sulla memoria di un compagno, non ha esitato a fare marcia indietro e a smentire: nessun paragone tra Falcone e Borsellino e Carlo Giuliani, sono stato strumentalizzato (leggi)! Come successore di Berlusconi potrebbe avere in effetti un certo successo…

Da parte nostra non abbiamo mai pensato che Carlo fosse un eroe, soprattutto in un paese in cui gli “eroi” sono Vittorio Mangano e Pietro Taricone: Carlo era un compagno, un fratello, era uno di noi, uno come noi, uno che combatteva e lottava, al nostro fianco, per lo stesso mondo che vorremmo noi. Non abbiamo mai pensato, del resto, neanche che fosse una “vittima”, espressione che va tanto di moda nel contesto pseudo-culturale di oggi, che serve ad abbattere le differenze tra chi combatte dalla parte giusta e chi combatte da quella sbagliata, equiparando tutti nella morte, soprattutto se avvenuta in modo violento. Carlo però è stato ammazzato dallo Stato, da quello stesso Stato che ha diretto i massacri in piazza, nella scuola Diaz e poi a Bolzaneto: e per questo non accettiamo banali semplificazioni che riducono Carlo Giuliani ad “eroe” o a “vittima”. Siamo d’accordo con quanto ha affermato oggi Giuliano Giuliani: “non ho mai detto di mio figlio che era un eroe, per me era solo un ragazzo che si batteva per affermare le sue idee, la difesa delle libertà e dei diritti delle persone, idee che raccontano la storia del mondo. Vorrei solo una cosa: che si ricordasse, non si dimenticasse mai che Carlo è stato ucciso dallo Stato”. Costruire polemiche ad arte intorno alla parola “eroe” a cosa serve? Si cancellano le responsabilità di chi dell’omicidio di Carlo è stato colpevole, si nasconde il fatto che ancora oggi – a 9 anni da quei giorni – ci sono compagni che rischiano anni ed anni di carcere, mentre le forze di polizia e i loro dirigenti che, a tutti livelli, di quei giorni di “macelleria messicana” sono stati responsabili hanno avuto assoluzioni e, in molti casi, avanzamenti di carriera, si riduce tutto a chiacchiericcio da spiaggia, senza nessun interesse per la verità e per la giustizia per quei giorni. Come 9 anni fa, siamo oggi al fianco dei compagni e delle compagne che, in quei giorni di Genova, si ribellarono e che, per questo, ancora oggi sono vittime delle maglie repressive dello stesso Stato che dell’omicidio di Carlo, e degli insabbiamenti e delle mistificazioni che ci sono state costruite sopra, è responsabile. E lo siamo nella consapevolezza che Carlo vive e che i morti sono loro.

lunedì 19 luglio 2010

Il 20 luglio di nuovo in piazza Alimonda


Il prossimo 20 Luglio a Genova arriva dopo un 30 Giugno ricordato con convinzione. Ricordato e manifestato da una sinistra plurale, non solo da quella piccola parte che in tutti gli anni scorsi, rifiutando la stanca commemorazione ufficiale, ha continuato a denunciare il pericolo della presenza di un fascismo strisciante nella nostra società, perfino nelle nostre istituzioni. Che cosa unisce le giornate del ’60 a quelle del 2001? Ne parlavamo alcuni giorni or sono a Palermo, dove cinquanta anni fa il governo Tambroni fece tre vittime, dopo i cinque morti di Reggio Emilia e uno di Catania. A Genova non fecero vittime: i lavoratori scesero in piazza in gran numero, tanto che i fascisti del Msi dovettero rinunciare al loro congresso e le violenze delle forze dell’ordine furono respinte. Anche quest’anno la presenza pacifica e determinata di numerosi cittadini e cittadine ha impedito una provocazione della destra che voleva tenere nello stesso giorno un incontro polemico nello storico albergo Bristol, dove il Cln decise l’insurrezione.
Ragionavamo a Palermo sul carattere essenzialmente operaio del movimento del ’60, ben diverso da quello studentesco e intellettuale che sarebbe seguito otto anni dopo, sull’onda che proveniva da Stati Uniti e Francia, e che pure anticipò l’autunno caldo di lotte sindacali del ’69. Il Pci, partito operaio, allora non comprese ed anzi in alcuni casi si mobilitò contro chi pretendeva “la fantasia al potere”. Nel ’60 l’esperienza di che cosa fosse il fascismo, di quali danni avesse provocato, di quanti dolori e lutti e tragedie fosse responsabile, era ben viva. Poi ci siamo “riconciliati”, senza giustizia e con molte omissioni e falsità. Nel 2001 a Genova si è incontrato un movimento ancora diverso, forse ingenuo o smemorato, sicuramente generoso e vario; univa le due grandi “anime” del nostro Paese, quella comunista e quella cristiana, univa molti popoli, non chiedeva per sé ma per altri, per quel Sud del Mondo da sempre sfruttato, assetato, affamato, avvelenato. Per questo motivo fu represso. Con grande violenza. La repressione non si è limitata a quelle giornate, con le manganellate, i gas Cs, la caccia all’uomo, gli arresti arbitrari, false molotov, veri colpi di pistola, torture nella scuola e nella caserma, come è stato sentenziato dal tribunale. E’ proseguita, complice la disinformazione di gran parte delle testate giornalistiche e servizi televisivi.
Mentre Carlo non ha ancora avuto diritto ad un processo; mentre i dirigenti della polizia, riconosciuti responsabili e condannati in secondo grado, non vengono allontanati dai loro alti incarichi; mentre nessuno dei carabinieri che hanno devastato e saccheggiato le nostre vite è mai stato neppure indagato nonostante filmati e testimonianze dimostrino la gravità dei comportamenti; mentre avviene tutto questo si continuano a perseguire in due diversi procedimenti a Genova dieci manifestanti (condannati in secondo grado a pene da dieci a quindici anni per “devastazione e saccheggio”) e in Calabria tredici (tutti assolti in primo grado). Martedì 20, mentre noi saremo in piazza Alimonda, si terrà un presidio davanti al Tribunale di Catanzaro che dovrà emettere la sentenza. Da un lato abbiamo agenti che risultano impunibili (o trattati con i guanti, come nel caso di Federico Aldrovandi: tre anni e qualcosa a testa per aver ammazzato un ragazzo), dall’altra una giustizia che persegue severamente cittadini rei, al massimo, di aver danneggiato cose. Da un lato qualsiasi pubblico ufficiale può ritenersi “offeso” e arrestare, dall’altro un semplice cittadino può perdere ogni diritto, compreso quello alla vita, nel buio di una strada, in una cella, un sottoscala di Questura e perfino di Tribunale. Carlo è stato la prima vittima di una nuova repressione. Per questo è giusto lottare per la denuncia e la memoria di quanto è successo e continua ad accadere. Sabato prossimo ascolteremo le testimonianze su alcune delle vittime di ieri e di oggi, senza dimenticare chi muore nei luoghi di detenzione. E domenica ascolteremo chi lavora, nelle associazioni e in comunità, dalla parte delle vittime.

Si può leggere tutto in hyperlink “ http://www.piazzacarlogiuliani.org”. Il pomeriggio del 20, naturalmente, resisteremo ancora una volta tutte e tutti in piazza Alimonda.

Haidi Giuliani

tratto da Liberazione del 15/07/2010

Il movimento per l'acqua "bene comune" porta le firme in Cassazione


Oltre 1 milione e quattrocentomila firme. Questo l’ottimo risultato della raccolta di sottoscrizioni per l’acqua pubblica che oggi (19 luglio) vede la consegna delle firme presso la Corte di Cassazione a Roma, in piazza Navona, dove sono presenti i comitati di sottoscrizione per la ri-pubblicizzazione dell'acqua, gli artisti per l'acqua e i rappresentanti delle associazioni e dei comitati territoriali.
Un grande risultato che praticamente triplica la soglia minima prevista di 500.000 firme, raggiunta molto in anticipo rispetto alla scadenza odierna.

Sono tre i quesiti che il gruppo di associazioni sta cercando di portare alle urne: il primo ha come obiettivo preciso l’abrogazione del decreto Ronchi approvato lo scorso novembre dall’attuale governo; il secondo e il terzo, invece, mirano a cancellare norme precedenti che, secondo i promotori, finalizzano la gestione del servizio idrico alla produzione di profitti. L’obiettivo è quello di portare almeno 25 milioni di italiani nella primavera dell’anno prossimo.

Qualora uno o più referendum siano ammessi il successivo passaggio è quello della cosiddetta «indizione», un istituto che coinvolge nella scelta della data il Ministero degli interni e il Presidente della Repubblica. Il referendum dovrà essere indetto in una domenica compresa fra la metà di aprile e la metà di giugno del 2011 e sarà valido qualora vi partecipino il 50% più uno degli aventi diritto al voto. Se, raggiunto il quorum, il numero dei «sì» dovesse essere superiore a quello dei «no», le disposizioni legislative oggetto di referendum verranno abrogate con effetto dalla data di pubblicazione dell'esito sulla Gazzetta Ufficiale. Il referendum verrà rinviato di un anno qualora le Camere vengano sciolte, mentre non sarà effettuato se dovesse essere promulgata una legge che ne accoglie sostanzialmente il risultato proposto dai promotori o ancora nel caso in cui l'atto avente forza di legge contro cui esso viene promosso venga dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla Corte Costituzionale.

Sono il secondo e terzo quesito in particolare, rispettivamente sui «modelli di gestione» e sulla «remunerazione del capitale investito», a creare le premesse per un'autentica gestione dell'acqua come «bene comune», da governare fuori dalla logica del profitto e con strumenti informati alla logica della sola pubblica utilità e non a quella aziendalistica. La presenza del secondo e del terzo quesito caratterizza la vera e propria «inversione di rotta» proposta dal Forum italiano movimento per l'acqua.


News e aggiornamenti dal sito del movimento:

sabato 17 luglio 2010

Colpevoli di antifascismo

Piove sugli antifascisti a Cagliari, piovono decreti penali di condanna e avvisi orali.

La polizia politica e alcuni magistrati ci accusano di aver manifestato contro il fascismo e contro i fascisti in carne ed ossa nella nostra città, in varie occasioni: il 2 agosto 2007 contro il raduno nazista "sei diventata nera" previsto pochi giorni dopo, il 25 aprile del 2009 e 2010 contro i fascisti che hanno occupato il centro della città, protetti dalla polizia, per celebrare i loro lugubri riti.
Queste le principali iniziative perseguite/condanna te, alle quali se ne affiancano delle altre di contorno (presidi contro i CIE, ecc.) sempre poco gradite nei contenuti e nelle pratiche ai nostri benemeriti vertici polizieschi.

Ma quali sono questi contenuti?
La lotta contro il razzismo, contro il fascismo, contro il "pacchetto sicurezza" e le sue leggi razziali e classiste, contro la militarizzazione delle strade e dei quartieri, contro le espulsioni e gli internamenti di uomini e donne che hanno la sola colpa di non possedere il "documento giusto".

Quali le pratiche?
Le manifestazioni spontanee, auto-organizzate, e quelle che si svolgono nell'immediatezza degli eventi, prive quindi del necessario preavviso di tre giorni alla questura richiesto e che si trovano quindi in una condizione di incerta legalità e sono esposte al rischio di essere arbitrariamente disperse dalle forze statali.

I decreti di condanna che sono stati inviati consistono essenzialmente in una proposta che il magistrato fa per conto dello stato al singolo antifascista: paga un'ammenda e ammetti la colpa, in cambio di questo atto di sottomissione questa vicenda si considera chiusa e non verrai perseguito ulteriormente.
Ma noi non intendiamo aderire alla proposta e a questo provvedimento faremo opposizione.

L'avviso orale consiste in una sorta di ammonimento a mantenere una condotta "conforme alla legge" ma non è legato ad un reato specifico o ad un giudizio ma semplicemente alla persona, alla sua condotta, a quello che dice e pensa. E' quindi un tipo di misura che, per la sua genericità e arbitrarietà, può essere estesa praticamente a chiunque e rispetto alla quale non è facile proteggersi. E' inoltre l'anticamera necessaria per venire sottoposti alla sorveglianza speciale, una serie di norme restrittive sulle libertà personali, nel caso in cui l'ammonito non si ravveda e perseveri sulla "cattiva strada" confermandosi così come una persona socialmente pericolosa.
Ma noi non intendiamo ravvederci e anche a questo provvedimento faremo opposizione.

Vi è evidentemente la volontà di punire la semplice manifestazione pubblica di un pensiero e di una volontà antifasciste, con una repressione generalizzata. Grazie anche alla complicità dei giornalisti che omettono e distorcono le informazioni, si cerca di impaurire il singolo manifestante; sono palesi le minacce e le intimidazioni che stanno dietro gli avvisi orali: partecipare a iniziative spontanee e antagoniste più avere gravi conseguenze.

Ma c'è un antifascismo, vivo e vitale, che ancora ha il coraggio di lottare contro il razzismo, il militarismo, la povertà e la guerra, che si oppone alle parate dei fascisti che occupano le città con la complicità e la protezione della polizia. Un Antifascismo che viene duramente represso. Gli antifascisti vengono spiati, schedati, provocati, denunciati esattamente come accadeva nel ventennio. Questo accade e sta accadendo, anche ora, anche a Cagliari.

Insuscettibili di ravvedimento

venerdì 16 luglio 2010

In piazza al fianco dei "sabotatori" Fiat. Scioperi contro la disciplina di Marchionne


"Sabotatori", così li ha definiti il presidente di Confindustria Marcegaglia i 3 operai di Melfi licenziati da casa Fiat... sabotare e rovesciare, essenza del conflitto operaio, non riconducibile sotto la cappa della compatibilità familiare e corporativa...

La signora Marcegaglia così come il Marchionne hanno fatti i conti senza l'oste! La loro sconfitta a Pomigliano (ottenuta in combutta con tutta una sfilza di servili accompagnatori!), preceduta da un'operazione forzosa e ricattevole, si spera debba essere ancora tutta pagata. Qualcosa si è mosso e visto, e seppur nell'impossibilità di prevedere qualsivoglia scenario, è chiaro che la reazione operaia è presente. Dal ricatto alla rappresaglia, questo il piano dell'amministratore delegato Marchionne: dopo il tentativo fatto con il referendum di Pomigliano d'Arco, dinnanzi a risultati sconfortanti, si è scelta la via dell'imposizione per mezzo di minacce e repressione... "il piano a Pomigliano sarà applicato" è stato detto, dopo giorni di emblematico silenzio post-voto, poi la distribuzione delle prime punizioni, 3 licenziamenti a Melfi e 1 a Mirafiori... oggi torna quanto mai utile riprendere quanto si diceva a caldo subito dopo "l'annuncio" di Casa Fiat sul progetto Pomigliano: le fabbriche senza operai restano ferme!

La Fiom ha dichiarato per quest'oggi 4 ore di sciopero negli stabilimenti del Lingotto, 8 a Melfi. Braccia incrociate per rispondere alla repressione aziendale, per respingere i licenziamenti di Melfi e Torino. Ritiro dei licenziamenti, ripresa delle trattative sul salario. Solidarietà ai "sabotatori" licenziati Giovanni Barozzino Antonio Lamorte e Marco Pignatelli (operai Melfi), e a Pino Capozzi (impiegato Mirafiori).

Melfi. I 3 operai di Melfi sono scesi quest'oggi dalla Porta Venosina, sulla quale erano saliti due giorni fa per contestare i loro licenziamenti. Sono scesi dopo che uno di loro ha avuto un malore per il forte caldo così come per la tensione accumulata. Meglio continuare a resistere combattendo! Significativo è stato l'appoggio e la solidarietà ricevuta da compagni e parenti, che li hanno rifocillati con acqua e cibo. Sono scesi dopo che il corteo operaio partito dallo stabilimento di Melfi ha attraversato il centro storico della città e raggiunto la Porta Venosina, con gli altoparlanti che rimbombavano il "Siamo con voi, non mollate" dell'oltre un migliaio di persone scese in piazza.

Torino. Ancora in piazza gli operai Fiat del torinese, scioperando contro i provvedimenti del Lingotto così come per la pretesa del pagamento del premio di risultato ancora non corrisposto. Lo sciopero proclamato dalla Fiom ha coinvolto gli addetti di Powertrain (ex Meccaniche) e delle Carrozzerie: dopo un corteo interno gli operai sono usciti dallo stabilimento e si sono diretti in piazza Cattaneo. Stessa iniziata è stata proclamata alla Magneti sospensioni di Rivalta. Nuovamente alte le adesioni.

Rho. Protesta anche a Rho, nel milanese: diverse centinaia di lavoratori dell'Iveco di Pregnana Milanese si sono mossi in corteo dalla stazione ferrovieria fin sotto il comune. Rho è stata scelta come sede dell'iniziativa milanese perché, nel territorio, le politiche Fiat hanno portato a mesi di cassa integrazione per gli operai dell'Iveco e alla chiusura dell'Alfa Romeo di Arese.

Una giornata di sciopero riuscita, gli stabilimenti Fiat hanno risposto, nella fucina di una reazione operaia non scontata o immaginabile, figlia della turbolenza creata dalla questione Pomigliano, quindi della prepotenza ostentata da casa Fiat, sperando che questa gli venga tutta rigirata contro, non per riportare pacificazione (Epifani docet) ma per ricostruire forza d'opposizione.

giovedì 15 luglio 2010

Belfast, terza notte di scontri


Terza nottata di scontri in Irlanda del nord tra giovani cattolici e polizia, in opposizione alle marce e alle provocazioni dei protestanti.

Celebrazioni orangiste che hanno scatenato la reazione dei cattolici: barricate infuocate erette lungo le strade, scontri violenti con le forze dell'ordine. Al lancio fitto di mattoni bottiglie e molotov la polizia ha risposto ancora caricando con i cannoni ad acqua così come sparando con proiettili di gomma. Sono più di 80 i feriti per gli scontri di piazza, almeno la metà appartenenti alla polizia, colpita anche da armi da fuoco. Sono state preannunciate ondate di arresti per i prossimi giorni.

Epicentro della sommossa è stato il quartiere di Ardoyne. Un conflitto serpeggiante quello riesploso a Belfast, segno della non compiuta pacificazione dall'alto così come del fermento sociale che informa pezzi di territorio e porzioni di società irlandese, con tanti giovani (soprattutto) protagonisti e irriducibili dinnanzi all'artificio di "accordi di pace" mal digeriti, quindi ad una realtà dentro la quale rivendicano e immaginano altro.


martedì 13 luglio 2010

E adesso, generale?



Il generale Giampaolo Ganzer, attuale comandante del Ros, è stato condannato a 14 anni di carcere per associazione a delinquere.

L’ottava sezione del Tribunale di Milano ha accolto le richieste del pm Zanetti e ha condannato il generale Ganzer a “soli” 14 anni di galera contro i 27 richiesti. “Le sentenze non si possono che rispettare. Aspettiamo le motivazioni” è stato il suo unico commento. Ma nell’attesa - a titolo di sostegno pieno all’ipotesi della costituzione di un’associazione per delinquere (costituita in banda armata, aggiungeremmo noi) finalizzata al traffico di droga e armi, al peculato, al falso e ad altri reati al fine di fare una rapida e folgorante carriera - non si possono non annotare anche le altre numerose e pesanti condanne di altrettanti suoi ex colleghi e sottufficiali. La vicenda, come è noto, fa riferimento all’attività criminale del nucleo antidroga del Ros nella prima metà degli anni ’90: importazione di droga e armi, raffinazione diretta e spaccio di eroina e cocaina, distrazione di denari sequestrati, sequestri fasulli. Ce ne siamo già occupati in passato.

Il punto è: com’è che si rispettano le sentenze?

La notizia è di queste ore, ancora non sono note le difese autorevoli e bipartisan che sistematicamente accompagnano le decisioni della magistratura laddove uomini di potere finiscano condannati: non c’è dubbio che anche in questo caso non mancheranno. In altre parole: lo vogliamo rimuovere Ganzer dal comando del nucleo di polizia giudiziaria più importante e delicato del nostro paese, o no? E chi se lo va a prendere? E ancora: se tutta l’operazione di falsificazione di cui è stato protagonista era finalizzata all’avanzamento rapido in carriera, non sarebbe il caso di rispolverare qualche altra faccenda? Tipo la partecipazione al “Teorema Calogero” fabbricando testi coimputati tra cui, guarda caso, un tossico spacciatore; la gestione processuale e finanziaria del pentito Br Michele Galati; l’eccidio efferato di una banda di giostrai in Friuli; le infiltrazioni e le complicità con la malavita del Brenta; il comando operativo durante le giornate del G8 a Genova 2001; e soprattutto, ultima in ordine di tempo, l’edificazione dell’inchiesta che ha mandato sotto processo a Cosenza un bel numero di partecipanti a quelle giornate.

Una condanna a 14 anni di carcere paralizzerebbe la carriera di qualsiasi cittadino, se poi si trattasse di un attivista dei movimenti significherebbe la sua vita segnata per sempre. Ma questa è un’altra faccenda. Nel caso di Ganzer una promozione come per i torturatori di Genova appare improbabile, avendo già raggiunto il grado più alto dell’Arma. Potrebbe forse aspirare al ruolo di capo di Stato Maggiore o forse si creerà qualche più alto incarico ad hoc tipo consigliere personale del presidente del Consiglio, aspettiamo fiduciosi, De Gennaro insegna. Nell’irresistibile ascesa del generale noi vediamo in realtà solo un’altra prova degli intrecci che riguardano potere politico, malaffare, trame occulte, mafia, camorra, comando sulle dinamiche di conflitto. Noi, che siamo irrimediabilmente ingenui e romantici, pensiamo che in qualsiasi civiltà giuridica che aspiri legittimamente a ritenersi tale Ganzer andrebbe immediatamente rimosso da ogni incarico. Pensiamo che li vadano tolti pistola e distintivo. Per il bene del Paese.

tratto da: globalproject.info

IL GENERALE GANZER, COMANDANTE DEI ROS, REGISTA DELL’OPERAZIONE BRUSHWOOD, CONDANNATO A 14 ANNI PER TRAFFICO DI DROGA.


Il generale Ganzer quello che sorrideva accanto alla Lorenzetti per aver guidato brillantemente l’operazione “fiction” denominata Brushwood, contro 5 ragazzi di Spoleto ( un saluto a Fabrizio che se ci fosse un lassù, starebbe sciogliendo il canto come lui soleva fare, alla giustizia tra gli uomini e alla libertà) oggi ha da sorridere molto di meno, avendo ricevuto una condanna a 14 anni per traffico di droga ( “.aveva costituito un associazione finalizzata al traffico di stupefacenti” www.corriere.it).

Con questo generale la città di Spoleto e i suoi ragazzi hanno avuto a che fare tre anni fa e grazie allo spettacolo pirotecnico di allora, ancor oggi dura una vicenda pesante che deve scrivere la parola fine.

Sarebbe bene che tutti gli intellettualmente onesti si guardino con attenzione il modus operandi del Generale e dei suoi uomini nella vicenda che li ha condotti alla condanna, e riconosceranno le tracce di quello che hanno fatto contro i ragazzi spoletini vittime dell’operazione Brushwood.

Facile colpire e usare spregiudicatamente qualche ragazzino anarchico e qualche loro amico senza colpa e senza protezione. Molto più complicato uscire indenni da operazioni con poteri legali e illegali di ben altra forza.

In tempi di illegalità conclamata dei potenti di tutti i poteri, politici, economici, militari, per ora Ganzer non è riuscito a farla franca e si è beccato 14 anni di carcere.

La domanda è, continuerà a vestire la divisa ? visto che l’ha fatto fino a questa mattina , nonostante la richiesta del PM per una condanna a 27 anni, per traffico d’armi, di droga peculato ?

Una seconda domanda è, come i giudici del processo Brushwood hanno potuto dare credito a questi personaggi così screditati che gli hanno sottoposto accuse senza prova alcuna e teoremi politici ?

L’ultima domanda è, la Lorenzetti ringrazia ancora il Generale Ganzer e i suoi uomini ?

COMITATO23OTTOBRE

www.comitato23ottobre.com


  

venerdì 9 luglio 2010

Seconda edizione della festa antifascista FUOCHI DI RESISTENZA

Festa della cultura, dell’iniziativa e della lotta antifascista
Mercoledì 14
Spazio dibattiti: ore 20.30 presentazione del libro “Parma 25 agosto 1972, assassinio di Mariano Lupo”. L’autore, Piermichele Pollutri, discute con Saverio Ferrari - dell’Osservatorio democratico sulle nuove destre - di neo fascismo e antifascismo militante.
Palco concerti: Zu Rino Band – cover di Rino Gaetano, da Cremona
Fratelli Sana – folk, da Brescia

Giovedì 15
Spazio dibattiti: ore 20.30 “Il processo per la strage di Piazza della Loggia”, andamento ed aggiornamenti, con l’avvocato di parte civile, Federico Sinicato e il giornalista Massimo Alberti, di Radio Popolare.
Palco concerti: Disordine – punk-hc, da Bergamo
Roorexplo – punk-hc, da Bergamo

Venerdì 16
Spazio dibattiti: ore 20.30 “La repressione non ci arresta”, incontro-dibattito con i Compagni arrestati per antifascismo e con quelli raggiunti dal cosiddetto ‘avviso orale’.
Coordina l’avvocato Manlio Vicini
Palco concerti: Cantiniero – ska, da Lecco
Erezione continua – ska-punk, da Parma
Al termine dei concerti, dj set ritmo irie con DJ Tafa e DJ Afro

Sabato 17
Ore 15.00 ASSEMBLEA NAZIONALE DI TUTTE LE REALTA’ ANTIFASCISTE
Ore 18.30 “OLTRE L’ONDA”, dossier sulla pratica e le lotte dell’assemblea degli studenti di Scienze Politiche dell’Università Statale di Milano. Saranno presenti i Compagni del collettivo.
Ore 21.30 Proiezione di “RESISTENZA! La ‘Banda Tom’ e altre storie Partigiane”. Yo Yo Mundi in concerto con Giuseppe Cederna e Gang. Testi di Fenoglio, Levi e Wu Ming.
Palco concerti: ATARASSIA GROP – combat-punk, da Como
Forbidden Kings – street-punk, da Stoccarda (D)
Enraged Minority – street-punk, da Baden-Wurttemberg (D)
Guacamaya – combat-punk, da Milano
Al termine dei concerti, dj set drum’n bass con DJ Lupo
Domenica 18
Ore 12.00 PRANZO SOCIALE di tutti i Compagni, amici e parenti della Festa.
Spazio dibattiti: ore 20.30 “Razzismo istituzionale, centri di identificazione ed espulsione, lotte dei migranti”, con l’avvocato Sergio Pezzucchi, legale dell’associazione ‘Diritti per Tutti’ e Ibrahima Diallo dell’ufficio migranti della CGIL.
Adro, Coccaglio, Montichiari, Villa Carcina, provincia di Brescia o feudo del Ku Klux Klan?
Al termine, proiezione del filmato: “BRUCIA IL CIE DI VINCENNES
Palco concerti: Dino Fumaretto/Elia Billoni, cantautore e pianista raffinato, da Mantova
Cani di Trifola - Special Italian Resistenza Suprema Poesia Edile, da Brescia

Conferenza stampa 09/07/2010 Sala Consigliare comune di Terni

La spiegazione è semplice: oggi in realtà in Italia c'è un drammatico vuoto di potere. Ma questo è il punto: non un vuoto di potere legislativo o esecutivo, non un vuoto di potere dirigenziale, né, infine, un vuoto di potere politico in un qualsiasi senso tradizionale. Ma un vuoto di potere in sé.
Come siamo giunti, a questo vuoto? O, meglio, "come ci sono giunti gli uomini di potere?".
La spiegazione, ancora, è semplice: gli uomini di potere democristiani sono passati dalla "fase delle lucciole" alla "fase della scomparsa delle lucciole" senza accorgersene


PIER PAOLO PASOLINI

La scomparsa delle lucciole” 1 febbraio 1975 Corriere della Sera


Pasolini nel 1975, pochi mesi prima di morire avvertiva che le lucciole, quei pochi sopravvissuti che tentavano di lanciare bagliori nel buio, sono scomparse. Le lucciole di Pasolini erano i marginali, quelli che resistevano alla caduta verticale verso l’omologazione dei tempi, alla luminosità accecante della società della spettacolo o al buio profondo della dittatura mascherata da democrazia.


Oggi le lucciole ancora ci sono, ma sono sempre meno e sempre più minacciate.


Questo documento è il frutto della discussione che alcune realtà e singoli impegnati nelle attività culturali e sociali della città. Abbiamo deciso di scriverlo per trovare le parole giuste per parlare alla città di questo strisciante processo di omologazione, e per lanciare un allarme sulla pericolosa china che sta prendendo la nostra città.


Negli ultimi mesi stiamo assistendo:


  • Ad un taglio netto delle risorse dedicate alle politiche culturali e sociali da parte del Comune di Terni. Questi tagli compromettono l’esistenza del tessuto connettivo della città, costringendo molte realtà a chiudere le proprie attività e a rendere più povera l’offerta culturale della città.


  • Ad un utilizzo sconsiderato di azioni unilaterali come le ordinanze comunali o azioni repressive da parte della Questura come gli avvisi orali e i divieti che - di solito applicati a reati mafiosi- cercano di ridurre l’attività sociale e politica a “problema” di ordine pubblico o quella culturale a disturbo della “quiete”.


  • All’esplicazione di una politica dell’ordine e della sicurezza che in modo retorico attraverso le ordinanze antirumore e antibivacco, le telecamere in centro e poliziotti e i carabinieri di quartiere e le intimidazioni delle forze dell’ordine, attraverso multe e avvisi orali descrivono una città in allarme che la popolazione percepisce al di là del reale, e individua i giovani come un problema di ordine pubblico e non come le forze propulsive della città


Ma dietro a tutto questo si nasconde:


  • la tendenza oramai portata a strategia di marketing dell’utilizzo della percezione della paura come strumento terroristico per anestetizzare le popolazioni e controllare di riflesso i pochi che resistono.


  • la debolezza della politica di fronte alle lobby di potere di alcune categorie della città. In questo caso vediamo come alcuni commercianti influenzino le scelte dell’amministrazione in un processo partecipato solo da pochi. Facendo del centro città non più un luogo attraversabile e vivibile come luogo pubblico ma come una costellazione di locali ed esercizi commerciali.


  • l’assenza nella politica locale di una consapevolezza e di uno spessore intellettuale, di una strategia, di una visione sulla città che comprenda lo sviluppo economico, la gestione dei beni pubblici e lo sviluppo del tessuto culturale e sociale. In assenza di risorse economiche la politica locale invece di coinvolgere tutti nella definizione di strategia alternative decide preventivamente di assediare le possibili aree di dissenso quando dovrebbe far leva proprio sui settori più creativi, innovativi e organizzati.


Per questo abbiamo deciso di reagire e di iniziare una campagna di comunicazione con la città rispetto a queste tematiche, perché siamo convinti che nessuno vuole una città addormentata, noiosa, dove aleggi la percezione di un pericolo inesistente, che non offra opportunità per giovani e meno giovani, che riduca il dissenso e la diversità ad un problema di ordine pubblico.

Terni è una città accogliente e aperta, facciamo in modo che rimanga tale e che possa in più diventare attrattiva, vivace, creativa e quindi in grado di produrre innovazione


Alcune proposte:


  • il ritiro delle ordinanze antirumore e antibivacco e la fine delle politiche repressive che mortificano l’agibilità democratica, le realtà vive del territorio e l’intelligenza dei cittadini


  • l’utilizzo della partecipazione come strumento privilegiato dell’amministrazione per definire le politiche in ambito di qualità urbana, politiche culturali e sociali.


  • L’investimento di maggiori risorse nei settori chiave dello sviluppo e della tenuta sociale della città e la realizzazione di politiche lungimiranti e innovative ( distretto culturale, sostenibilità ambientale, qualità degli spazi urbani... )


  • l’elaborazione di strategie di sostegno e di facilitazione per tutte quelle realtà del volontariato che contribuiscono alla rete dei servizi della pubblica amministrazione


  • la definizione di un’idea di città solidale, aperta, plurale, viva, creativa e giovane e la creazione di un tavolo tra le forze attive della città e gli amministratori locali per stabilire quali strategie mettere in atto per realizzare questa visione.


  • Promuovere i giovani come motore dello sviluppo economico, culturale e sociale della città. Rompere il meccanismo di autoconservazione della oramai invecchiata classe dirigente di questa città.



I giovani della città, le forze attive del territorio in ambito sociale e culturale e politico devono assumersi la responsabilità di invertire questa rotta, di uscire dalla difesa della propria storia personale e dei piccoli interessi e impegnare le proprie risorse, le proprie capacità, le proprie idee per realizzare una visione più ampia e complessa della città che vogliamo.


Non c’è più nulla da difendere, è arrivato il tempo di costruire un presente diverso, di essere protagonisti comuni delle possibilità di sviluppo della nostra città

Togliamo la sordina a Terni. Costruiamo la città dei nostri desideri.

mercoledì 7 luglio 2010

Concerto "Shots in the dark" ANNULLATO

A seguito delle ripetute pressioni amministrative recentemente trasformatesi in diffide e in ultimo in minacce di ripercussioni penali nei confronti di alcuni compagni Il concerto degli shots in the dark di questo sabato 10 Luglio 2010 è stato annullato.

fino a che punto potra arrivare l'arroganza di questa amministrazione comunale pur di impedire l'aggregazione sociale?

NON FINISCE QUA... CI FAREMO SENTIRE!!!!

Aquilani in corteo a Roma, scontri e due feriti I manifestanti assediano il Senato

Arrivano in cinquemila, tafferugli con le forze dell'ordine. Protesta davanti a palazzo Grazioli. Cialente: "Non meritavamo di essere trattati così". Per Bersani fischi e applausi: "Dico sì ad una tassa di scopo per l'Aquila"




ROMA - Non si sono fatti fermare dal grande caldo e dalla paura di un'intera giornata sotto il sole ma, svegli dall'alba, migliaia di aquilani si sono messi in marcia verso Roma per dare vita a una grande manifestazione e lanciare un Sos al Governo. Nessuna bandiera di partito, solo quella nero-verde della città, colori scelti dagli aquilani dopo il terremoto che già nel 1703 distrusse il capoluogo abruzzese. Il nero del lutto, il verde della speranza. Aderiscono alla manifestazione 53 dei 59 comuni del cratere, la Provincia dell'Aquila, i sindacati, compreso quello di polizia, tutte le organizzazioni di categoria, ma anche cittadini di Avellino e Palermo, arrivati per dimostrare solidarietà. Sospensione di tasse e tributi, occupazione, sostegno all'economia: queste le richieste degli aquilani, che dal prossimo dicembre dovrebbero tornare a pagare le tasse e gli arretrati al 100%.

Il primo blocco in via del Corso. Alle 10:45 più di 40 pullman e tanti mezzi privati arrivano nella Capitale e già si capisce che non sarà una manifestazione facile. Il primo blocco è all'inizio di via del Corso. Polizia e carabinieri, schierati in assetto antisommossa, bloccano l'accesso dei manifestanti che, a gran voce, chiedono solo di poter arrivare a piazza Colonna. Qualche spintone e qualche coro contro il governo: un centinaio di persone prova a forzare il cordone, ma niente da fare. Vola qualche schiaffo e a farne le spese è anche Giovanni Lolli, deputato aquilano del Pd: "Le ho prese anche io - racconta a chi gli chiede cosa sia accaduto -. Ero lì davanti, di schiena, e a un certo punto sono arrivati colpi. Non ce l'ho con i poliziotti, che sono solo ragazzi mal pagati. Ma con chi li comanda...".

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Tensione e tafferugli. Ma il momento più teso arriva circa mezz'ora più tardi quando, tolto il primo blocco, il corteo viene costretto a fermarsi a cento metri da piazza colonna da un cordone ancora più robusto di polizia, carabinieri e guardia di finanza. "Vogliamo solo chiedere aiuto: siamo senza casa e senza lavoro, perché non ci lasciate il diritto di manifestare?", gridano in molti. Ma i manganelli spuntano quasi inaspettati. A qualche spinta un po' più corposa, gli agenti rispondono con gli sfollagente e ne fanno le spese due ragazzi. "Mi sono trovato davanti, inerme. Non ho detto e non ho fatto nulla, ma mi sono trovato schiacciato tra i pochi che spingevano e quelli che menavano - racconta Marco, che ha la testa fasciata e il volto dolorante e incredulo di chi non riesce a capire il perché di una reazione così forte -. Quello che mi dispiace è che da una manifestazione pacifica venga fuori questa immagine. Non siamo venuti a fare casino, ma solo a rivendicare i nostri diritti e a chiedere sostegno per la nostra città".

Spintonato anche il sindaco Cialente
. "Non meritiamo di essere trattati così, abbiamo sempre fatto manifestazioni pacifiche e il blocco da parte delle forze dell'ordine non me lo aspettavo. Non ci è bastato il terremoto abbiamo preso anche le botte". Massimo Cialente, sindaco dell'Aquila, anche lui in testa al corteo e, come Lolli, vittima di qualche 'pestonè commenta amareggiato i tafferugli. "Sono stato calpestato nei tafferugli a piazza Venezia mentre cercavo di calmare gli animi", ha rassicurato Cialente, dopo che si era sparsa la voce che fosse stato colpito da una manganellata.

Neanche il blocco all'incrocio tra via del Corso e via di Pietra viene superato e i manifestanti, solo dopo aver deviato per i vicoli ed essersi ricompattati in piazza Capranica, riescono a raggiungere piazza Colonna. "Siamo stanchi di un anno di promesse che non vengono mai mantenute - urla un rappresentante del comitato 3.32 -. È la prima volta che dopo un terremoto non viene stanziato un fondo per la ricostruzione. Siamo senza casa, senza lavoro... senza speranza. Siamo forti... ma a questo punto per niente gentili".

Bersani: "L'Aquila priorità numero uno". In piazza Colonna arrivano Bersani, accolto da fischi e applausi, e Marco Pannella, entrambi invitati dai cittadini, stanchi per la lunga mattinata, ma per niente rassegnati, a parlare con i terremotati. "Ci siamo informati di quello che è avvenuto in queste ore - ha detto il segretario del Pd riferendosi agli scontri -. Si tratta di episodi intollerabili. Il Governo non può far trovare la polizia davanti a una manifestazione". E poi, in merito alle tasse ha aggiunto: "Stiamo facendo battaglie sulle tasse e chiediamo che, come per gli altri terremoti ci sia una legge che colleghi emergenza e ricostruzione". Incalzato dai manifestanti sulla necessità di introdurre una tassa di scopo Bersani ha aggiunto: "C'è bisogno di risorse finanziarie certe che provengano dal bilancio pubblico e da interventi straordinari, anche di solidarietà, quindi anche da una tassa di scopo. Per noi la priorità numero uno - ha concluso - è l'Aquila. Sono state fatte delle promesse e devono essere mantenute".

In marcia verso il Senato, ma nuovo blocco davanti a Palazzo Grazioli. Il mare di bandiere nero verde riprende a muoversi. Destinazione: palazzo Madama. Ma appena imboccata via del Plebiscito un nuovo blocco ostacola i manifestanti. Davanti a Palazzo Grazioli, il cui portone viene prontamente chiuso, gli aquilani non possono passare. "Vogliamo arrivare a Piazza Navona prima che termini al Senato la discussione sulla manovra economica - urla al megafono Sara Vegni del comitato 3.32 -. Siamo persone civili e ragionevoli, non ci interessa fermarci davanti a palazzo Grazioli. Il corteo fino a Piazza Navona è autorizzato dalla Questura di Roma. Invece non ci fanno passare".

Nuovo dietrofront. È stata necessaria una lunga trattativa perché gli aquilani si convincessero a cambiare per l'ennesima volta itinerario. Poi, tutti stretti in un cordone che ha bloccato la strada, con Cialente e i sindaci dei comuni del cratere in testa, si sono diretti, attraverso via delle Botteghe Oscure, a piazza Navona, dove hanno dato vita a un sit-in. Per pochi minuti su Palazzo Madama sventola la bandiera dell'Aquila. Ad esporla i senatori Idv, Stefano Pedica e Giuliana Carlino che, accedendo dalla sala Maccari, hanno raggiunto il balcone che si affaccia sopra l'ingresso principale di corso Rinascimento. Subito dopo i commessi hanno rimosso la bandiera.

tratto da repubblica.it

FUORI A CANTAR CON NOI... BANDIERA ROSSA



da reti-invisibili.net

Il 7 luglio 1960, nel corso di una manifestazione sindacale, cinque operai reggiani, tutti iscritti al PCI, sono uccisi dalle forze dell’ordine. I loro nomi, immortalati dalla celebre canzone di Fausto Amodei “Per i morti di Reggio Emilia”: Lauro Ferioli, Ovidio Franchi, Emilio Reverberi, Marino Serri, Afro Tondelli. I morti di Reggio Emilia sono l’apice – non la conclusione – di due settimane di scontri con la polizia, alla quale il capo del governo Tambroni ha dato libertà di aprire il fuoco in “situazioni di emergenza”: alla fine si conteranno undici morti e centinaia di feriti. Questi morti costringeranno alle dimissioni il governo Tambroni, monocolore democristiano con il determinante appoggio esterno dei fascisti del M.S.I. e dei monarchici, e apriranno la strada ai futuri governi di centro-sinistra. Ma soprattutto, contrassegneranno in modo repentino un radicale mutamento di clima politico nel paese: l’avvento della generazione dei “ragazzi con le magliette a righe”. Sino a quel momento i giovani erano considerati come spoliticizzati, distanti dalla generazione dei partigiani e orientati al mito delle “tre M” (macchina, moglie, mestiere): la giovane età di tre delle cinque vittime testimonia invece la presa di coscienza, in forme ancor più radicali della generazione che aveva resistito negli anni Cinquanta, di un nuovo proletariato giovanile. Di questo mutamento di clima – dalla disperata tristezza per il revanchismo fascista alla rinascita della speranza dopo i fatti di luglio – sono testimonianza la poesia di Pasolini “La croce uncinata” (aprile 1960) e l’articolo “Le radici del luglio” (Vie nuove, 29 ottobre 1960).

Il contesto storico-politico
Il 25 marzo 1960 il presidente della Repubblica Giovanni Gronchi conferisce l’incarico di formare il nuovo governo a un democristiano di secondo piano, Fernando Tambroni, avvocato quasi sessantenne ed esponente della sinistra democristiana, attivo sostenitore di una politica di “legge ed ordine”. La sua designazione segna un punto di svolta all’interno di un’acuta crisi politica, con pesanti risvolti istituzionali. La politica del centrismo è ormai esaurita, ma le trattative con il Partito Socialista di Pietro Nenni per la formazione di un governo di centro-sinistra non sembrano in grado di partorire la svolta politica, auspicata e preparata dall’astro nascente della DC Aldo Moro, che nell’ottobre 1959 aveva aperto ai socialisti affermando il carattere “popolare e antifascista” della DC in occasione del congresso democristiano svoltosi a Firenze. Il governo Tambroni ha al suo interno una forte presenza di uomini della sinistra democristiana, ma ottiene la fiducia alla camera solo grazie ai voti dei fascisti e dei monarchici. La direzione della DC sconfessa l’operato del gruppo parlamentare, e tre ministri (Sullo, Bo e Pastore) aprono una crisi che si conclude col rinvio alle Camere del Governo, con l’invito del presidente Gronchi a sostituire i tre ministri riottosi. In questo modo Gronchi esplicitava la proposta politica di un “governo del Presidente” che cercava spregiudicatamente i suoi consensi in aula con chiunque fosse disponibile ad appoggiarlo: una soluzione autoritaria, come lo era del resto la proposta di un “gollismo italiano” caldeggiata da Fanfani, volta a sminuire le prerogative del Parlamento davanti al rischio di un ingresso dei socialisti nella maggioranza. Degna di nota la presenza nel governo di due uomini del “partito-Gladio”: Antonio Segni (agli Esteri) e Paolo Emilio Taviani, (oltre all’immancabile Giulio Andreotti, Oscar Luigi Scalfaro e Benigno Zaccagnini).

Da Genova a Reggio Emilia
Nel giugno il MSI annuncia che il suo congresso nazionale si terrà a Genova, città medaglia d’oro della Resistenza, e che a presiederlo è stato chiamato l’ex prefetto repubblichino Emanuele Basile, responsabile della deportazione degli antifascisti resistenti e degli operai genovesi nei lager e nelle fabbriche tedeschi. Alla notizia Genova insorge. Il 30 giugno i lavoratori portuensi (i cosiddetti “camalli”) risalgono dal porto guidando decine di migliaia di genovesi, in massima parte di giovane età (i cosiddetti “ragazzi dalle magliette a righe”), in una grande manifestazione aperta dai comandanti partigiani. Al tentativo di sciogliere la manifestazione da parte della polizia, i manifestanti rovesciano e bruciano le jeep, erigono barricate e di fatto si impadroniscono della città, costringendo i poliziotti a trincerarsi nelle caserme. In piazza De Ferrari viene acceso un rogo per bruciare i mitra sequestrati alle forze dell’ordine. Il prefetto di Genova è costretto ad annullare il congresso fascista. In risposta alla sollevazione genovese Tambroni ordina la linea dura nei confronti di ogni manifestazione: il 5 luglio la polizia spara a Licata e uccide Vincenzo Napoli, di 25 anni, ferendo gravemente altri ventiquattro manifestanti. Il 6 luglio 1960 a Roma, a Porta San Paolo, la polizia reprime con una carica di cavalleria (guidata dall’olimpionico Raimondo d’Inzeo) un corteo antifascista, ferendo alcuni deputati socialisti e comunisti.

Il 7 luglio
La sera del 6 luglio la CGIL reggiana, dopo una lunga riunione (la linea della CGIL era sino a quel momento avversa a manifestazioni politiche) proclama lo sciopero cittadino. La polizia ha proibito gli assembramenti, e le stesse auto del sindacato invitano con gli altoparlanti i manifestanti a non stazionare. Ma l’unico spazio consentito – la Sala Verdi, 600 posti – è troppo piccolo per contenere i 20.000 manifestanti: un gruppo di circa 300 operai delle Officine Meccaniche Reggiane decide quindi di raccogliersi davanti al monumento ai Caduti, cantando canzoni di protesta. Alle 16.45 del pomeriggio una violenta carica di un reparto di 350 celerini al comando del vice-questore Giulio Cafari Panico investe la manifestazione pacifica: “Cominciarono i caroselli degli automezzi della polizia. Ricordo un’autobotte della polizia che in piazza cercava di disperdere la folla con gli idranti”, ricorda un testimone, l’allora maestro elementare Antonio Zambonelli. Anche i carabinieri, al comando del tenente colonnello Giudici, partecipano alla carica. Incalzati dalle camionette, dalle bombe a gas, dai getti d’acqua e dai fumogeni, i manifestanti cercano rifugio nel vicino isolato San Rocco, “dove c’era un cantiere, ricorda un protagonista dei fatti, Giuliano Rovacchi. Entrammo e raccogliemmo di tutto, assi di legno, sassi…”. “Altri manifestanti, aggiunge Zambonelli, buttavano le seggiole dalle distese dei bar della piazza”. Respinti dalla disperata sassaiola dei manifestanti, i celerini impugnano le armi da fuoco e cominciano a sparare: “Teng-teng, si sentiva questo rumore, teng-teng. Erano pallottole, dice Rovacchi, e noi ci ritirammo sotto l’isolato San Rocco. Vidi un poliziotto scendere dall’autobotte, inginocchiarsi e sparare, verso i giardini, ad altezza d’uomo”.

In quel punto verrà trovato il corpo di Afro Tondelli (1924), operaio di 35 anni. Si trova isolato al centro di piazza della Libertà. L’agente di PS Orlando Celani estrae la pistola, s’inginocchia, prende la mira in accurata posizione di tiro e spara a colpo sicuro su un bersaglio fermo. Prima di spirare Tondelli dice: “Mi hanno voluto ammazzare, mi sparavano addosso come alla caccia”. Partigiano della 76a Sap (nome di battaglia “Bobi”), è il quinto di otto fratelli, in una famiglia contadina di Gavasseto. Sposato, è segretario locale dell’Anpi.

Davanti alla chiesa di San Francesco è Lauro Farioli, 22 anni, orfano di padre, sposato e padre di un bimbo. Lo chiamavano “Modugno” grazie alla vaga somiglianza con il cantante. Era uscito di casa con pantaloni corti, una camicetta rossa, le ciabatte ai piedi: ai primi spari si muove incredulo verso i poliziotti come per fermarli. Gli agenti sono a cento metri da lui: lo fucilano in pieno petto. Dirà un ragazzo testimone dell’eccidio: “Ha fatto un passo o due, non di più, e subito è partita la raffica di mitra, io mi trovavo proprio alle sue spalle e l’ho visto voltarsi, girarsi su se stesso con tutto il sangue che gli usciva dalla bocca. Mi è caduto addosso con tutto il sangue”.

Intanto l’operaio Marino Serri, 41 anni, partigiano della 76a brigata si è affacciato piangendo di rabbia oltre l’angolo della strada gridando “Assassini!”: cade immediatamente, colpito da una raffica di mitra. Nato in una famiglia contadina e montanara poverissima di Casina, con sei fratelli, non aveva frequentato nemmeno le elementari: lavorava sin da bambino pascolando le pecore nelle campagne. Militare a 20 anni, era stato in Jugoslavia. Abitava a Rondinara di Scandiano, con la moglie Clotilde e i figli.

In piazza Cavour c’è Ovidio Franchi, un ragazzo operaio di 19 anni. Viene colpito da un proiettile all’addome. Cerca di tenersi su, aggrappandosi a una serranda: “Un altro, racconta un testimone, ferito lievemente, lo voleva aiutare, poi è arrivato uno in divisa e ha sparato a tutti e due”. Franchi è la vittima più giovane (classe 1941, nativo della frazione di Gavassa): figlio di un operaio delle Officine Meccaniche Reggiane, dopo la scuola di avviamento industriale era entrato come apprendista in una piccola officina della zona. Nel frattempo frequentava il biennio serale per conseguire l’attestato di disegnatore meccanico, che gli era stato appena recapitato. Morirà poco dopo a causa delle ferite riportate.

Ma gli spari non sciolgono la manifestazione: sono proprio i più giovani – tra i quali è Rovacchi – a resistere: “La macchina del sindacato girava tra i tumulti e l’altoparlante ci invitava a lasciare la piazza, che la manifestazione era finita. Ma noi non avevamo alcuna intenzione di ritirarci, qualcuno incitava addirittura alle barricate. Non avremmo sgomberato la piazza almeno fino a quando la polizia non spariva. E così fu. Mentre correvo inciampai su un corpo senza vita, vicino al negozio di Zamboni. Era il corpo di Reverberi, ma lo capii soltanto dopo”.

Emilio Reverberi, 39 anni, operaio, era stato licenziato perché comunista nel 1951 dalle Officine Meccaniche Reggiane, dove era entrato all’età di 14 anni. Era stato garibaldino nella 144a Brigata dislocata nella zona della Val d’Enza (commissario politico nel distaccamento Amendola). Nativo di Cavriago, abitava a Reggio nelle case operaie oltre Crostolo con la moglie e i due figli. Viene brutalmente freddato a 39 anni, sotto i portici dell’Isolato San Rocco, in piazza Cavour. In realtà non è ancora morto: falciato da una raffica di mitra, spirerà in sala operatoria.

Polizia e carabinieri sparano con mitra e moschetti più di 500 proiettili, per quasi tre quarti d’ora, contro gli inermi manifestanti. I morti sono cinque, i feriti centinaia: Zambonelli, riuscito a entrare nell’ospedale, testimonia di “feriti ammucchiati ai morti, corpi squartati, irriconoscibili, ammassati uno sull’altro”. Drammatica anche la testimonianza del chirurgo Riccardo Motta: “In sala operatoria c’eravamo io, il professor Pampari e il collega Parisoli. Ricordo nitidamente quelle terribili ore, ne passammo dodici di fila in sala operatoria, arrivava gente in condizioni disperate. Sembrava una situazione di guerra: non c’era tempo per parlare, mentre cercavamo di fare il possibile avvertivamo, pesantissimi, l’apprensione e il dolore dei parenti”.

La caduta del governo Tambroni
Nello stesso giorno altri scontri e altri feriti a Napoli, Modena e Parma. Il ministro degli Interni Spataro afferma alla Camera che “è in atto una destabilizzazione ordita dalle sinistre con appoggi internazionali”. Invano il presidente del Senato Cesare Merzagora tenta una mediazione, proponendo di tenere le forze di polizia in caserma e invitando i sindacati a sospendere gli scioperi per “non lasciare libera una moltitudine di gente che può provocare incidenti”: la polizia continua a sparare ad altezza d’uomo. A Palermo la polizia carica con i gipponi senza preavviso, e quando i dimostranti rispondono a sassate, gli agenti estraggono i mitra e le pistole e uccidono Francesco Vella, di 42 anni, mastro muratore e organizzatore delle leghe edili, che stava soccorrendo un ragazzo di 16 anni colpito da un colpo di moschetto al petto, Giuseppe Malleo (che morirà nei giorni successivi) e Andrea Gangitano, giovane manovale disoccupato di 18 anni. Viene uccisa anche Rosa La Barbera di 53 anni, raggiunta in casa da una pallottola sparata all’impazzata mentre chiudeva le imposte. I feriti dai colpi di armi da fuoco sono 40.
A Catania la polizia spara in piazza Stesicoro. Salvatore Novembre di 19 anni, disoccupato, è massacrato a manganellate. Si accascia a terra sanguinante: “mentre egli perde i sensi, un poliziotto gli spara addosso ripetutamente, deliberatamente. Uno due tre colpi fino a massacrarlo, a renderlo irriconoscibile. Poi il poliziotto si mischia agli altri, continua la sua azione”. Il corpo martoriato e sanguinante di Salvatore viene trascinato da alcuni agenti fino al centro della piazza affinché sia da ammonimento. Essi impediscono a chiunque, mitra alla mano, di portare soccorso al giovane il quale, a mano a mano che il sangue si riversa sul selciato, lentamente muore. Le autorità imbastiranno successivamente una macabra montatura disponendo una perizia necroscopica al fine di “accertare, ove sia possibile, se il proiettile sia stato esploso dai manifestanti”. Altri 7 manifestanti rimangono feriti. Il 9 luglio imponenti manifestazioni di protesta a Reggio Emilia (centomila manifestanti), Catania e Palermo rilanciano la protesta. Tambroni arriva a collegare le manifestazioni a un viaggio di Togliatti a Mosca, affermando che “questi incidenti sono frutto di un piano prestabilito dentro i palazzi del Cremlino”. Ma il governo è ormai nell’angolo: il 16 luglio la Confindustria firma con i sindacati l’accordo sulla parità salariale tra uomini e donne, il 18 viene pubblicato un documento sottoscritto da 61 intellettuali cattolici che intima ai dirigenti democristiani a non fare alleanza con i neofascisti. Il 19 luglio Tambroni si reca dal presidente Gronchi, il 22 viene conferito ad Amintore Fanfani l’incarico di formare un governo appoggiato da repubblicani e socialdemocratici. Nel 1964 si svolge a Milano il processo a carico del vice-questore Cafari Panico e dell’agente Celani. Il 14 luglio la Corte d’Assise di Milano, presidente Curatolo, assolve i responsabili della strage: Giulio Cafari Panico, che aveva ordinato la carica, viene assolto con formula piena per non aver commesso il fatto; Orlando Celani, da più testimoni riconosciuto come l’agente che con freddezza prende la mira e uccide Afro Tondelli, viene assolto per insufficienza di prove.

martedì 6 luglio 2010

«Rischiamo la morte»



La violenza della deportazione del governo libico, la responsabilità e la complicità del governo italiano. Parlano gli immigrati eritrei deportati nel sud della Libia



[Stefano Liberti per Il Manifesto]



«Ero praticamente arrivato in Italia. Ora sono qui, in questo buco sperduto in mezzo al Sahara e rischio di finire nelle mani del governo del mio paese, che mi torturerà o mi ucciderà». L'uomo parla dal centro di detenzione di Braq, nel sud della Libia, dove è stato spedito il 30 giugno scorso dalle autorità di Tripoli insieme agli altri 244 richiedenti asilo eritrei che stavano nel campo di Misratah.

Il suo nome non lo diremo, lo chiameremo semplicemente T. per ragioni di sicurezza. Ma la sua storia la racconteremo in dettaglio. Perché chiama in causa direttamente il nostro governo. T. infatti è un «respinto», uno di quelli che sono stati intercettati in mare dalle unità militari italiane e rimandati indietro in Libia, in aperta violazione del diritto internazionale.

Nel campo di Braq i «respinti dall'Italia» sono undici. Sono stati picchiati come tutti gli altri. Non hanno acqua, né cibo a sufficienza. Sono allo stremo. Ma la loro storia ci riguarda da più vicino: se non fossero stati respinti illegalmente in mare, oggi sarebbero al sicuro nel nostro paese, con un permesso di soggiorno come rifugiati politici o per protezione internazionale.

Nel campo di Braq i «respinti dall'Italia» sono undici. Sono stati picchiati come tutti gli altri. Non hanno acqua, né cibo a sufficienza. Sono allo stremo. Ma la loro storia ci riguarda da più vicino: se non fossero stati respinti illegalmente in mare, oggi sarebbero al sicuro nel nostro paese, con un permesso di soggiorno come rifugiati politici o per protezione internazionale. Il manifesto ha la lista di tutti i loro nomi, se il governo - che per bocca del sottosegretario Margherita Boniver ha definito «pretestuose e antistoriche» le critiche dirette alla politica italiana di contrasto alla cosiddetta immigrazione clandestina - vorrà mai visionarla.

Tutti e undici erano saliti sulla stessa barca in direzione dell'Italia il 27 giugno del 2009. E tutti sono stati riportati a Tripoli, insieme agli altri 71 viaggiatori, fra cui 9 donne e tre bambini. Sono stati mandati indietro con l'inganno e con la forza. T. cerca di scacciare l'angoscia del presente e ripercorre le tappe di quel viaggio finito esattamente un anno fa con un ritorno beffardo al punto di partenza. «Abbiamo viaggiato tre giorni. Eravamo tanti sulla barca», racconta al telefono. «Poi, a un certo punto abbiamo perso la rotta e abbiamo iniziato a preoccuparci. Sapevamo che non eravamo lontani dalla meta, ma vedevamo solo mare all'orizzonte. Allora, abbiamo telefonato con il satellitare ad alcuni amici eritrei a Tripoli. Questi hanno chiamato altri eritrei in Italia, che ci hanno poi contattato chiedendoci le coordinate satellitari».

T. ricorda l'angoscia dell'attesa e il sollievo provato quando ha visto avvicinarsi una nave italiana. «Era una grande barca. Una nave militare. Ci hanno caricati su e ci hanno detto che eravamo salvi. Ci avrebbero portato in Italia. Siamo saliti gridando dalla felicità», racconta T. «Ci hanno rifocillati, l'equipaggio all'inizio era gentile, ci hanno detto che saremmo finiti a Roma o a Milano. In realtà ci stavano semplicemente ingannando». Dopo un po', infatti, la situazione ha preso un'altra piega. «Ci siamo accorti che ci stavamo mettendo troppo tempo. I nostri amici eritrei ci avevano detto che eravamo a 30 miglia da Lampedusa. Non potevamo metterci così tanto tempo». La nave non stava andando verso l'isola pelagia, né verso le coste della Sicilia. Si stava dirigendo a sud, verso Tripoli, dove prevedeva di consegnare il carico di migranti - donne, uomini, bambini, tutti eritrei, tutti richiedenti asilo - alle autorità libiche.

«Abbiamo iniziato a intuire quello che sarebbe accaduto», racconta T. Ma alle loro richieste di spiegazione, gli uomini dell'equipaggio rispondevano con frasi vaghe. «Facevano finta di non capire l'inglese». Finché i loro sospetti si sono concretizzati nella forma di una imbarcazione più piccola, con a bordo dei libici. «C'erano anche degli italiani», ricorda T. Il che lascia credere che questa seconda imbarcazione fosse una delle motovedette che il nostro governo ha regalato a quello libico per i cosiddetti pattugliamenti congiunti della costa della Jamahiriya.

A quel punto, racconta T., a bordo si è scatenato il putiferio. «Ci siamo ribellati. Non volevano tornare indietro. L'equipaggio non sapeva che fare. A un tratto, hanno tirato fuori delle pistole elettriche e hanno colpito alcuni di noi, immobilizzandoli. Le donne urlavano, i bambini piangevano. Gli italiani tenevano gli uomini sotto la minaccia dell'elettroshock. Con la forza ci hanno caricati sulla nave più piccola, che con altre due ore di viaggio è attraccata a Tripoli». Il ritorno in Libia ha avuto il sapore amaro del già visto. «Sapevamo cosa ci sarebbe accaduto. Ci hanno poi portato in vari centri. Lì siamo stati identificati e picchiati. Io e gli altri dieci siamo finiti a Misratah. Siamo rimasti lì un anno. Fino a giovedì scorso, quando ci hanno caricati come capi di bestiame e ci hanno portati qui, in mezzo al Sahara».

T. ripete che non vuole tornare a casa in Eritrea ma vuole semplicemente, come tutti i suoi 244 compagni di sventura, vedere riconosciuto il suo diritto d'asilo ed essere portato in un paese terzo, «in Europa o in Nord America, dove sono rispettati i diritti umani». Ha paura del futuro immediato. E ha una domanda che ripete.

tratto da infoaut.org



Assemblea generale d'ateneo. Intervento de* Student* e precar* autoconvocat*


il 5 luglio si è svolta presso la facoltà di scienze politiche dell'università di perugia un'assemblea generale d'ateneo indetta da* ricercator* contro la manovra tremonti. a breve pubblicheremo il documento finale dell'assemblea.

Dall’Agosto 2008 si susseguono ininterrottamente Disegni di Legge, Decreti Legge e Leggi che tendono allo smantellamento dell'Università pubblica o, forse sarebbe meglio dire, dell’Università ad accesso libero e di massa (perché di pubblico nella gestione dell’attuale università c’è sempre meno, e il pubblico negli ultimi tempi è sempre più difficile a distinguersi dal privato). Tali riforme hanno il segno di un processo ben preciso che eccede le diverse parti politiche per assumere un segno bipartisan: da Ruberti (PSI, 1990) a Berlinguer (DS) fino alla Moratti (Forza Italia) e alla Gelmini (PDL).

Tali provvedimenti hanno come motivo dichiarato la situazione di crisi economica generale e la pessima gestione dell'istituzione universitaria italiana, ma sparano nel mucchio e colpiscono le fasce più deboli: i ricercatori sono più colpiti di associati e ordinari, i ricercatori non confermati sono più colpiti dei ricercatori già confermati, il personale ATA è colpito più del corpo docente, student* e precar*, che hanno meno potere di reazione, sono colpiti e basta. E non è un caso che essi costituiscano le due fasce più numerose tra quelle che compongono il corpo vivo dell'università.

Già oggi * student* che frequentano l'università subiscono questa politica dei tagli e dell'indigenza. Le matricole si iscrivono già preparate all'idea di veder progressivamente aumentare tasse e balzelli e, contemporaneamente, veder diminuire le proprie possibilità e i propri diritti. Ancor più disastrosa è la situazione di coloro che dopo la laurea decidono (o hanno deciso) di rimanere nell’ambito universitario. Molt* di loro credono che per fare ricerca basti la passione e non sia necessario esser sempre pagat* o avere i diritti che hanno gli altri lavoratori e che è normale che il frutto del loro prodotto venga sfruttato per lo più da altri (anche esterni) perché così si entra all’università. Se da una certa prospettiva è positivo svolgere il lavoro che corrisponde alla propria passione, è anche da considerare l'eventuale declinazione che questo tipo di lavoro può avere. Sovente infatti la passione e la disponibilità al proprio lavoro viene contraccambiata da bassi pagamenti o mancati pagamenti e, da questa prospettiva abbiamo lo sfruttamento.

Del resto, negli incontri di fantomatiche associazioni private, nello specifico dell'associazione "università per l'umbria", che si permettono diparlare a nome dell’università, di student* si parla solo in relazione agli argomenti tasse e tirocini gratuiti nelle aziende. De* precar* non si parla neanche. Tale doloroso silenzio si registra anche nelle istituzioni pubbliche, dove si parla di eccellenz, merito, università come ricchezza eocnomica ma mai come luogo dove vivono delle persone con dei diritti, dei bisogni, una vita.

A vari livelli noi student*, precar* e ricercatori ci siamo resi protagonist* negli ultimi due anni di mobilitazioni che hanno alla loro radice una crisi che è generalizzata. Per farvi dunque fronte è necessario unire le nostre forze e formulare nuove proposte e prospettive riguardo l'attacco cui è sottoposto l'intero comparto della formazione (università, scuola e non solo). Non ha senso fare rivendicazioni parziali e vertenzialistiche nel mezzo della catastrofe. Così l'intero comparto della formazione è sotto il medesimo attacco, e medesima e unitaria ha da essere la risposta.

L’Università sta per bruciare e non ha senso discutere su chi deve essere il primo o l'ultimo a morire. Sta dunque ad ognun* di noi uscire dall'apatia e dal lamento, prendere parola e conseguentemente la responsabilità del proprio impegno.

Ma neanche le forme di protesta possono essere parziali. Pena la creazione immediata di un conflitto all’interno degli stessi mobilitati. Prendiamo in esame le forme di protesta attuate alla sapienza di Roma: decisione de* docenti di non tenere la sessione di esami di luglio. Agli occhi di molti la situazione sarebbe questa: docenti che rischiano di andare in ferie un mese prima, studenti che rischiano di perdere borse di studio o di saltare una sessione di laurea.
E' necessario in questo momento tenere in considerazione, nel proporre e praticare forme di protesta, la piattaforma della protesta, i modi della protesta e la sua efficacia.

Riteniamo dunque che le forme e i contenuti della protesta debbano essere pensati, proposti, discussi e decisi collettivamente da tutti i soggetti che vivono l'università e che intendono porre in atto rivendicazioni, dato che non ci saranno conquiste senza conflitto e non è possibile fare conflitto senza organizzazione.

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