martedì 6 luglio 2010

«Rischiamo la morte»



La violenza della deportazione del governo libico, la responsabilità e la complicità del governo italiano. Parlano gli immigrati eritrei deportati nel sud della Libia



[Stefano Liberti per Il Manifesto]



«Ero praticamente arrivato in Italia. Ora sono qui, in questo buco sperduto in mezzo al Sahara e rischio di finire nelle mani del governo del mio paese, che mi torturerà o mi ucciderà». L'uomo parla dal centro di detenzione di Braq, nel sud della Libia, dove è stato spedito il 30 giugno scorso dalle autorità di Tripoli insieme agli altri 244 richiedenti asilo eritrei che stavano nel campo di Misratah.

Il suo nome non lo diremo, lo chiameremo semplicemente T. per ragioni di sicurezza. Ma la sua storia la racconteremo in dettaglio. Perché chiama in causa direttamente il nostro governo. T. infatti è un «respinto», uno di quelli che sono stati intercettati in mare dalle unità militari italiane e rimandati indietro in Libia, in aperta violazione del diritto internazionale.

Nel campo di Braq i «respinti dall'Italia» sono undici. Sono stati picchiati come tutti gli altri. Non hanno acqua, né cibo a sufficienza. Sono allo stremo. Ma la loro storia ci riguarda da più vicino: se non fossero stati respinti illegalmente in mare, oggi sarebbero al sicuro nel nostro paese, con un permesso di soggiorno come rifugiati politici o per protezione internazionale.

Nel campo di Braq i «respinti dall'Italia» sono undici. Sono stati picchiati come tutti gli altri. Non hanno acqua, né cibo a sufficienza. Sono allo stremo. Ma la loro storia ci riguarda da più vicino: se non fossero stati respinti illegalmente in mare, oggi sarebbero al sicuro nel nostro paese, con un permesso di soggiorno come rifugiati politici o per protezione internazionale. Il manifesto ha la lista di tutti i loro nomi, se il governo - che per bocca del sottosegretario Margherita Boniver ha definito «pretestuose e antistoriche» le critiche dirette alla politica italiana di contrasto alla cosiddetta immigrazione clandestina - vorrà mai visionarla.

Tutti e undici erano saliti sulla stessa barca in direzione dell'Italia il 27 giugno del 2009. E tutti sono stati riportati a Tripoli, insieme agli altri 71 viaggiatori, fra cui 9 donne e tre bambini. Sono stati mandati indietro con l'inganno e con la forza. T. cerca di scacciare l'angoscia del presente e ripercorre le tappe di quel viaggio finito esattamente un anno fa con un ritorno beffardo al punto di partenza. «Abbiamo viaggiato tre giorni. Eravamo tanti sulla barca», racconta al telefono. «Poi, a un certo punto abbiamo perso la rotta e abbiamo iniziato a preoccuparci. Sapevamo che non eravamo lontani dalla meta, ma vedevamo solo mare all'orizzonte. Allora, abbiamo telefonato con il satellitare ad alcuni amici eritrei a Tripoli. Questi hanno chiamato altri eritrei in Italia, che ci hanno poi contattato chiedendoci le coordinate satellitari».

T. ricorda l'angoscia dell'attesa e il sollievo provato quando ha visto avvicinarsi una nave italiana. «Era una grande barca. Una nave militare. Ci hanno caricati su e ci hanno detto che eravamo salvi. Ci avrebbero portato in Italia. Siamo saliti gridando dalla felicità», racconta T. «Ci hanno rifocillati, l'equipaggio all'inizio era gentile, ci hanno detto che saremmo finiti a Roma o a Milano. In realtà ci stavano semplicemente ingannando». Dopo un po', infatti, la situazione ha preso un'altra piega. «Ci siamo accorti che ci stavamo mettendo troppo tempo. I nostri amici eritrei ci avevano detto che eravamo a 30 miglia da Lampedusa. Non potevamo metterci così tanto tempo». La nave non stava andando verso l'isola pelagia, né verso le coste della Sicilia. Si stava dirigendo a sud, verso Tripoli, dove prevedeva di consegnare il carico di migranti - donne, uomini, bambini, tutti eritrei, tutti richiedenti asilo - alle autorità libiche.

«Abbiamo iniziato a intuire quello che sarebbe accaduto», racconta T. Ma alle loro richieste di spiegazione, gli uomini dell'equipaggio rispondevano con frasi vaghe. «Facevano finta di non capire l'inglese». Finché i loro sospetti si sono concretizzati nella forma di una imbarcazione più piccola, con a bordo dei libici. «C'erano anche degli italiani», ricorda T. Il che lascia credere che questa seconda imbarcazione fosse una delle motovedette che il nostro governo ha regalato a quello libico per i cosiddetti pattugliamenti congiunti della costa della Jamahiriya.

A quel punto, racconta T., a bordo si è scatenato il putiferio. «Ci siamo ribellati. Non volevano tornare indietro. L'equipaggio non sapeva che fare. A un tratto, hanno tirato fuori delle pistole elettriche e hanno colpito alcuni di noi, immobilizzandoli. Le donne urlavano, i bambini piangevano. Gli italiani tenevano gli uomini sotto la minaccia dell'elettroshock. Con la forza ci hanno caricati sulla nave più piccola, che con altre due ore di viaggio è attraccata a Tripoli». Il ritorno in Libia ha avuto il sapore amaro del già visto. «Sapevamo cosa ci sarebbe accaduto. Ci hanno poi portato in vari centri. Lì siamo stati identificati e picchiati. Io e gli altri dieci siamo finiti a Misratah. Siamo rimasti lì un anno. Fino a giovedì scorso, quando ci hanno caricati come capi di bestiame e ci hanno portati qui, in mezzo al Sahara».

T. ripete che non vuole tornare a casa in Eritrea ma vuole semplicemente, come tutti i suoi 244 compagni di sventura, vedere riconosciuto il suo diritto d'asilo ed essere portato in un paese terzo, «in Europa o in Nord America, dove sono rispettati i diritti umani». Ha paura del futuro immediato. E ha una domanda che ripete.

tratto da infoaut.org



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