venerdì 5 febbraio 2010

LA MEMORIA NON SI MANIPOLA. Ora e Sempre Antifascisti.

Con il suo I Giustizieri. 1944: la brigata ‘Gramsci’ tra Umbria e Lazio, Marcello Marcellini ha fatto parlare di sé, nel tentativo di attribuirsi, sulla scia di Giampaolo Pansa, ma ancor prima su quella di politici di sinistra come i Violante -che hanno ritenuto opportuno riabilitare i repubblichini di Salò- l’onere e l’onore di aver finalmente ristabilito anche in Umbria la “verità dei fatti” , contro la mistificazione ideologica filo resistenziale propugnata da una presunta “egemonia culturale della sinistra”.
Andando oltre gli slogan, oggi così remunerativi sul mercato editoriale, quella di Marcellini è in realtà un’operazione politica, storicamente inattendibile, che, come dimostra bene Marco Venanzi, dovrebbe essere respinta puntualmente nel merito e nel metodo storico, di cui invece Marcellini e tutti i suoi esegeti rivendicano un uso corretto e imparziale.
La sedicente indagine storiografica di Marcellini è, per dirla con Renato Covino, una sorta di “romanzo storico a tesi” , in cui alle ipotesi di ricerca si sostituiscono appunto tesi precostituite, per dimostrare le quali i fatti vengono decontestualizzati e le fonti accuratamente selezionate in funzione dell’assunto iniziale, cioè nel deliberato intento di dimostrare che i partigiani erano in realtà assassini, i quali approfittarono della situazione per compiere atti di criminalità comune. La lettura data da Marcellini è che le controrappresaglie partigiane avvenute tra Umbria e Lazio dall’11 marzo al 18 maggio 1944, non sarebbero altro che “delitti efferati e compiuti a sangue freddo con persone che venivano sequestrate di notte, in casa davanti a mogli e figli, trascinate fuori e uccise a bastonate e pugnalate. Spesso venivano evirate ai cadaveri venivano strappati gli occhi e non abbiamo prove che queste mutilazioni siano state effettuate dopo la morte”. Se non fosse per la dignità e la libertà duramente conquistata con la lotte e il sangue dei partigiani, si potrebbe consigliare a Marcellini di dedicarsi a tempo pieno al suo nuovo mestiere di scrittore e liquidare così il suo bieco uso strumentale della storiografia per un’altrettanto bieca riabilitazione del fascismo.
Tuttavia, solidali e complici con quanti hanno liberato le nostre terre dal fascismo assassino, ci sentiamo oggi di dover esprimere il nostro fermo rifiuto al revisionismo “rovescista”, che vorrebbe trasformare i carnefici in vittime.
Torniamo allora al merito e al metodo storico, rifacendoci alle prove documentate da Marco Venanzi nel suo L’onore della ‘Gramsci’ .Per quanto concerne il merito dei delitti in questione oltre a cruenti dettagli per sottolineare la “barbarie” partigiana, Marcellini ci dice poco; e quel poco che gli permette di ricostruire in modo unilaterale e de-contestualizzato la (sua) presunta verità. Ecco allora che dell’uccisione di Luigi Martinelli e Alberto Guadagnoli dell’11 marzo 1944, l’autore ignora, volutamente, alcuni antefatti imprescindibili, come la rappresaglia di Poggio Bustone, ordinata da Ermanno Di Marsciano che il giorno prima (il 10 marzo 1944) provocò 5 morti, numerosi feriti, incendi e saccheggi. In seguito, tra marzo e aprile – quando Poggio Bustone viene riconquistata, saccheggiata e messa a fuoco da tedeschi e fascisti con un bilancio di 11 persone fucilate, a cui si aggiungono i 18 morti di Morro Reatino (con Costantino Rossi chiuso e bruciato vivo in casa) – i rastrellamenti fascisti conteranno 51 morti a Leonessa, 15 a Rieti, 38 nella zona tra Narni, Otricoli e Calvi, 63 nel Nursino e nel Casciano, e, infine, 25 nella Valnerina, senza contare i deportati che sarebbero stati tra le varie zone almeno 350 . Un colpo feroce inferto alla brigata Gramsci che si decide a preparare una controrappresaglia. Sarà questa a colpire Maceo Carloni, aderente dal 1932 al Pnf e dirigente sindacale fascista, e Augusto Centofanti, ex squadrista un “fascista accanito”, nelle parole del commissario prefettizio (fascista) del paese Francesco Riccardi, la cui testimonianza non sembra interessare Marcellini. Piuttosto l’autore preferisce indugiare sui particolari macabri dell’uccisione, utilizzando solo i documenti che sostengono le tesi delle “sevizie” e omettendo quelli che le negano, come il referto del medico che dichiara di non poter accertare mutilazioni sul corpo di Centofanti, dato l’avanzato stato di decomposizione. Dopotutto, il macabro (o se si vuole, lo spettacolare) va per la maggiore, e chi scrive libri lo sa; come nota anche Mario Tosti, presidente dell’Isuc , quando parla di “trasformabilità della memoria e della storia in merce dell’industria culturale”. Anche nel caso di Giuseppe Contieri, finanziere di Macenano, Marcellini compie la stessa operazione fatta di omissioni ed enfatizzazione dell’esecuzione, tesa a dimostrare che anche quest’ultimo fu vittima della furia rancorosa di pochi partigiani contro presunte spie e delatori. In realtà numerose fonti ci indicano un’ostilità popolare diffusa verso la figura autoritaria del Contieri, ed inoltre dai documenti dell’indagine giudiziaria dei carabinieri emerge un’omertà assoluta tra i paesani, che fa molto verosimilmente ritenere che intorno a quella esecuzione vi fosse il consenso della popolazione. Marcellini, al contrario, si limita alla dichiarazione di Palmieri (capo dello spionaggio fascista) di non conoscere Contieri, omettendo le dichiarazioni di Silvio Santini, dirigente del Pnf poi diffidato dai partigiani, che invece Contieri lo conosceva bene perché era stato proprio lui a metterlo in guardia rispetto alle intenzioni dei partigiani. Lo stesso avviene per il caso dei quattro di Morro Reatino perché in questo caso la guerra civile ha spaccato in due la comunità e per i quali sarebbe necessaria una approfondita analisi storiografica effettuata con ben altri strumenti di quelli utilizzati da Marcellini.

Vi è un’altra questione di merito che va segnalata, e cioè l’ipotesi – piuttosto rocambolesca – con cui l’autore insinua che negli anni Cinquanta, in una fase di acuta repressione anticomunista, il Pci avrebbe condizionato la magistratura. Marcellini infatti utilizza come fonte di documentazione la cosiddetta storia giudiziaria (e la tradizione orale, purché compiacente) con l’obiettivo, tutt’altro che sottaciuto, di denunciare il non luogo a procedere nei confronti dei reati ascritti ai partigiani che, subito dopo la guerra, vennero ritenuti oggetto di amnistia in quanto considerate “azioni di guerra o di lotta contro il fascismo”.
Un elemento, questo, che ci permette di avanzare un’obiezione anche riguardo al metodo di indagine storica, e cioè: il ricorso alle sole carte processuali e a frammenti di storia orale può essere in quanto tale (e quindi indipendentemente da un giudizio di valore) una documentazione scientificamente sufficiente se non comprovata da altre fonti?
Su questo e su molto altro si potrebbe puntualizzare, ma in fondo quello che ci interessa di queste storielle (o meglio, storiacce) è il loro intento politico – l’altra faccia dell’attendibilità storiografica – e cioè le motivazioni revisioniste di una storia che, in realtà, è stata già scritta dal sangue di chi ha combattuto e creduto nella Resistenza.

Abbiamo sempre criticato la monumentalizzazione e le reticenze connesse alla storia della resistenza. Siamo d’accordo con Claudio Pavone quando afferma che“nella Resistenza italiana, come del resto in quella di altri paesi, convivono in vario modo e variamente intrecciati tre aspetti: uno patriottico, rivolto contro il tedesco invasore; uno rivolto contro i fascisti e i collaborazionisti di casa propria; uno rivolto, da parte di ampi settori della classe operaia, contro il padronato” . Sappiamo inoltre che nella lotta partigiana si andarono coagulando e mescolando mai sopiti conflitti rurali, nuove rivendicazioni operaie, criminalità comune, rancori interfamiliari, questioni personali, contrasti ideologici e manovre politiche che sarebbe antistorico definire estranei alla Resistenza.
Ma a chi, come Marcellini “si propone una omologazione delle parti non è difficile reperire episodi apparentemente rivelatori di una logica identica per entrambi i contendenti, (anche se è chiaro, dai giudizi di valore o dall’asetticità con cui riassume le stragi nazifasciste da che parte l’autore dei Giustizieri si schiera). Simili rivisitazioni hanno come presupposto e come effetto l'azzeramento del tempo storico, la rimozione o l'occultamento della sostanza di un approccio alla realtà che si pretenda storico, cioè almeno una corretta sistemazione dei fatti lungo un asse cronologico -stabilire il prima, il durante e il dopo-; e, di conseguenza, anche l'azzeramento dei molteplici nessi causali che solo la storicizzazione rende possibili”
Infatti “la lotta partigiana fu, a tutti gli effetti, una guerra nella guerra per cui appare chiaro il carattere pretestuoso di una certa storiografia che, dopo oltre mezzo secolo, continua a speculare sul carattere violento della medesima; il problema però è, ancora una volta, che tale violenza rimane illeggibile senza un'analisi e un inquadramento storici, prestandosi quindi alle interpretazioni strumentali che hanno per scopo non tanto quello di dimostrare che i partigiani fecero ricorso alla violenza, quanto quello di pervenire all'equazione per cui la "sinistra" è portatrice di violenza, tanto più inumana in quanto commessa contro dei "fratelli" e quindi esecrabile come fu quella di Caino”. E’ altrettanto fuori discussione che l'esercizio della violenza e il progressivo dilagare di forme di crudeltà inusuali e irrazionali fu stabilito in primo luogo da scelte strategiche e dalla prassi adottata dalle truppe di occupazione germaniche e dei loro alleati repubblichini, venendo quindi a predeterminare il livello di violenza dello scontro, si pensi soltanto all'infame rapporto di 1 a 10 applicato per le rappresaglie, ma anche all'analoga logica d'annientamento applicata dai nazisti in tutta l'Europa occupata o ai casi specifici della rappresaglia nazifascista sopra riportati.
Come afferma Sandro Portelli "i partigiani e la sinistra hanno parlato a lungo, non senza giustezza e non senza retorica, del sacrificio dei partigiani che hanno dato la vita per la libertà, ma molto meno del fatto che i partigiani a loro volta hanno sparato, hanno ucciso, hanno, insomma, fatto la guerra, e che in guerra ci sono le vittime anche dall'altra parte. Non solo: ma che in guerra la morale sfuma, che errori e ambiguità ci possono essere anche dalla parte di chi ha ragione. Siccome noi abbiamo negato tutto questo, adesso a ogni ambiguità, a ogni ombra, il senso comune revisionista nega tutta la Resistenza"
Ecco è proprio questo il punto rispetto al libro di Marcellini: l’uso strumentale, decontestualizzato e politico di eventi e memoria. Un’operazione non certamente storica, scientifica ma politica, come ben dimostra la sponsorizzazione, per usi elettorali, del P.D.L. del libro.
Siamo tutti figli di questa storia, l’“altra” la lasciamo ai nostalgici delle squadracce e agli adulatori di vecchie e nuove dittature.


GLI ANTIFASCISTI TERNANI

Nessun commento:

visitatori