lunedì 20 febbraio 2012

È SEMPRE DI MODA L'ATTACCO (VERGOGNOSO) AI CONSULTORI ED ALLA LEGGE 194

Il Tribunale Amministrativo Regionale del Piemonte ha recentemente respinto il secondo ricorso presentato contro il “Protocollo per il miglioramento del percorso assistenziale per la donna che richiede l’interruzione volontaria di gravidanza”, proposto dall’assessore regionale alla sanità Caterina Ferrero e approvato dal Consiglio Regionale, guidato dal leghista Cota. La delibera è stata contestata da diverse associazioni e gruppi di donne, politicamente eterogenee, accomunate in difesa del principio di autodeterminazione delle donne. La proposta è stata voluta dal Movimento per la Vita, per legittimare l’ingresso dei suoi volontari entro i consultori, in ottica antiabortista, il che vuol dire contro le donne ed il loro diritto di scelta sul proprio corpo. Come nel Lazio per la Proposta di Legge Tarsia, anche qui si è proceduto con identiche linee ispiratrici: schedatura, controllo e colpevolizzazione delle donne. Alcune riflessioni e obiezioni, più volte sollevate, sono: l’inutilità di un sostegno economico limitato nel tempo per le madri che scelgono di non abortire, che riduce il ricorso all'IVG esclusivamente a problemi economici; la rappresentazione della donna come mero contenitore, incapace di fare scelte di vita; la mancanza di politiche reali a sostegno di noi tutte, madri o meno; l'evidente incompetenza di chi parla di consultori e dimentica che dovrebbero essere i luoghi della salute delle donne, non dell’imposizione e del controllo; la pericolosità di un meccanismo fatto di commissioni, ammissioni, schedature, volontari, obiettori che di fatto colpevolizza e impedisce alle donne di interrompere una gravidanza nei tempi previsti dalla legge e con tutte le garanzie di professionalità, gratuità e accoglienza dovute.


Si vuole focalizzare l'attenzione sulla motivazione addotta per il respingimento del ricorso. Il ragionamento esibito si regge su un'argomentazione che si può esplicitare in tre semplici passaggi, due premesse e una conclusione: 1) la delibera riguarda donne gravide; 2) le donne non gravide non sono interessate dalla delibera; 3) le donne non gravide non hanno interesse a ricorrere. L'argomento, a quanto pare, possiede una sua plausibilità nel ragionamento giuridico, ma la validità logica, invece, pare piuttosto labile, quanto meno se si considera che lo stato di gravidanza è uno stato transitorio ed è quindi difficile stabilire se una donna che, oggi non è gravida ma potrebbe esserlo prima o poi, abbia o meno il diritto di essere inclusa nella categoria delle donne che hanno interesse a ricorrere. Tuttavia, questi ragionamenti non colgono il nodo della questione di natura politica.
La motivazione del TAR risulta interessante dove mostra che di fatto la donna non viene assimilata alla figura del cittadino, per essa il confine tra esclusione e inclusione nella cittadinanza è sempre labile. Sostenere che una donna non ha diritto di ricorrere contro un provvedimento che riguarda donne incinte se non è incinta significa costruire un'eccezione nella normalità del paradigma giuridico, che rivela l'eccezionalità della posizione del soggetto coinvolto.
In questo caso, l'eccezione funziona come dispositivo di espulsione della donna dal rapporto giuridico tra cittadina-Stato. La delibera tratta la maternità come un affare pubblico, qualcosa su cui è giusto e doveroso legiferare, ma se le donne prendono pubblicamente parola sulla maternità le si riconduce nell'isolamento del privato (sostenere che solo una donna incinta avrebbe legittimo interesse a ricorrere equivale a ri-privatizzare la maternità). A questo livello si inserisce la questione dell'auto-derminazione che, appunto, è un affare pubblico e politico. Questa battaglia non si risolve esclusivamente in una campagna di laicità, non ingerenza, o simili, ma tocca nel vivo la relazione tra le donne e la cittadinanza.
Una donna che non possiede il proprio corpo, a cui è negato di possederlo, è esclusa dalla cittadinanza. Il tema del piacere femminile e quello della maternità sono, in questo senso, le due facce di una stessa medaglia. L'espropriazione della nostra facoltà di decidere il piacere e la maternità coincide con la negazione dell'auto-determinazione. Non è un caso che proprio su questi terreni si cerchi di sottrarre alle donne la parola per consegnarla a chi, con violenza ed in sua vece, vorrebbe determinarne a priori il senso e il significato.
Ogni atto amministrativo, emendamento, proposta di legge che giace nelle commissioni istituzionali, in materia di MATERNITÀ-SESSUALITÀ-ABORTO, non condivise dalle donne, ma imposte, rappresentano un'insopportabile offesa alle nostre vite in un ambito che è solo nostro: se è vero che sul corpo delle donne non si danno leggi, che siano le donne a gridarlo forte, fuori dalle giunte, dalle commissioni, dai tribunali amministrativi.
DIFENDIAMO LA 194, DIFENDIAMO I CONSULTORI!

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